La Trinità

Indice

Libro V

1.1 - Ciò che Agostino chiede a Dio, ciò che chiede ai lettori

Incominciando ora a trattare di quelle cose che nessuno - almeno io no di certo - può esprimere in maniera adeguata a come le pensa - anche il nostro pensiero stesso si sente superato di molto, quando meditiamo su Dio Trinità, dall'oggetto cui si applica e non lo può attingere qual è, ma anzi, anche persone della grandezza dell'apostolo Paolo, come dice la Scrittura, lo vedono per specchio, in enigma ( 1 Cor 13,12 ) - è anzitutto al Signore Dio nostro, al quale sempre dobbiamo pensare senza potervi pensare degnamente, al quale, con la lode, è dovuta in ogni momento la benedizione, ( Sal 34,2 ) senza che vi sia parola capace di esprimerlo adeguatamente, che domando soccorso, per comprendere e spiegare ciò che mi propongo, e perdono per i miei eventuali errori.

Tengo infatti ben presente non solo la mia intenzione, ma anche la mia debolezza.

Anche ai miei lettori chiedo di scusarmi se si accorgeranno che non ho potuto esprimere, come avrei voluto, ciò che essi o comprendono meglio di me, o che l'oscurità del mio linguaggio li impedisce di comprendere; come io li scuso se è la loro lentezza di spirito che li impedisce di comprendere.

1.2 - Dio è qualcosa di molto migliore di ciò che c'è di meglio in noi

Ci perdoneremo più facilmente a vicenda se avremo compreso, o almeno avremo creduto con fermezza, che tutto ciò che si afferma della natura immutabile e invisibile, vita somma e che basta a se stessa, si ha da giudicare con misura diversa da quella costituita dalle consuete realtà visibili, mutevoli, mortali, miserabili.

Noi ci affanniamo per farci una conoscenza scientifica di ciò che cade sotto i nostri sensi corporei e di ciò che noi siamo nella nostra vita interiore, e non ci riusciamo.

Tuttavia non c'è arroganza, se nella ricerca del divino ed ineffabile che ci supera si infiamma la pietà sincera, non quella che si gonfia per la presunzione delle proprie forze, ma quella che si infiamma per la grazia dello stesso Creatore e Salvatore.

Con quale intelletto infatti conosce Dio l'uomo che non conosce ancora il suo stesso intelletto con il quale vuol conoscere Dio?

E se lo comprende avverta con diligenza che non c'è nella sua natura nulla di migliore e veda se scopre in esso lineamenti di forme, splendore di colori, grandezza spaziale, distanza di parti, estensione di una mole, spostamenti spaziali, o qualsiasi cosa di questo genere.

Certamente non troviamo nulla di questo in ciò che vi è di migliore in noi, cioè nel nostro intelletto, con il quale attingiamo la sapienza, quanta ne siamo capaci.

Ebbene ciò che non troviamo in ciò che vi è di migliore in noi, non dobbiamo cercarlo in Colui che è molto migliore di ciò che vi è di migliore in noi.

Concepiamo dunque Dio, se possiamo, per quanto lo possiamo, buono senza qualità, grande senza quantità, creatore senza necessità, al primo posto senza collocazione, contenente tutte le cose ma senza esteriorità, tutto presente dappertutto senza luogo,1 sempiterno senza tempo, autore delle cose mutevoli pur restando assolutamente immutabile ed estraneo ad ogni passività.

Chiunque concepisce Dio a questo modo, sebbene non possa ancora scoprire perfettamente ciò che è, evita almeno con pia diligenza, per quanto può, di attribuirgli ciò che non è. ( Sir 43,31 )

2.3 - Dio è l'Essere

Dio è tuttavia senza alcun dubbio sostanza, o, se il termine è più proprio, essenza, che i Greci chiamano ούσία.

Come infatti dal verbo sapere si è fatto derivare sapientia, da scire scientia, dal verbo esse si è fatto derivare essentia.2

E chi è dunque più di Colui che ha dichiarato al suo servo Mosè: Io sono colui che sono. ( Es 3,14 )

Dirai ai figli di Israele: Colui che è, mi ha mandato a voi? ( Es 3,14 )

Ma tutte le altre essenze o sostanze che conosciamo, comportano degli accidenti, da cui derivano ad esse trasformazioni grandi o piccole.

Dio però è estraneo a tutto questo e perciò vi è una sola sostanza immutabile o essenza, che è Dio, alla quale conviene nel senso più forte e più esatto, questo essere dal quale l'essenza deriva il suo nome.

Perché ciò che muta non conserva l'essere, e ciò che può mutare, anche se di fatto non muta, può non essere ciò che era.

Perciò solo ciò che, non soltanto non muta, ma soprattutto non può assolutamente mutare, merita senza riserve ed alla lettera il nome di essere.

3.4 - L'argomentazione degli Ariani

Cominciamo dunque a rispondere agli avversari della nostra fede anche su queste questioni in cui né l'espressione eguaglia il pensiero, né il pensiero la realtà.

Fra i tanti argomenti che gli Ariani sogliono contrapporre alla fede cattolica ve n'è uno che essi sembrano considerare come l'espediente più ingegnoso.

È quando dicono: "Quanto si enuncia o si pensa di Dio, si predica non in senso accidentale, ma in senso sostanziale.

Perciò il Padre possiede l'attributo di ingenerato secondo la sostanza, come anche il Figlio possiede secondo la sostanza l'attributo di generato.

Ma non è la stessa cosa essere ingenerato ed essere generato.

Di conseguenza la sostanza del Padre e la sostanza del Figlio sono differenti".3

Noi rispondiamo: "Se tutto ciò che si predica di Dio, si predica secondo la sostanza, allora l'affermazione: Io e il Padre siamo una cosa sola, ( Gv 10,30 ) riguarda la sostanza.

Perciò unica è la sostanza del Padre e del Figlio".

Ovvero, se questa affermazione non concerne la sostanza, allora c'è qualcosa che non si attribuisce a Dio secondo la sostanza e non siamo più obbligati ad intendere in senso sostanziale "ingenerato" e "generato".

Similmente si afferma del Figlio: Non stimò una rapina essere uguale a Dio; ( Fil 2,6 ) uguale in qual senso? chiediamo.

Infatti se non è detto uguale in senso sostanziale, essi ammettono che non tutto ciò che si predica di Dio concerne la sostanza.

Ammettano allora che "ingenerato" e "generato" non si debbano intendere secondo la sostanza.

Se non lo ammettono, perché pretendono che tutto ciò che si attribuisce a Dio ha valore sostanziale, allora il Figlio è uguale al Padre secondo la sostanza.

4.5 - La mutazione è essenziale ad ogni accidente

Accidente designa ordinariamente una realtà che una mutazione nella cosa cui appartiene può far scomparire.

Certo vi sono degli accidenti, come si dice, inseparabili, i Greci li chiamano άχώριστα come il colore nero delle piume del corvo, tuttavia esse perdono il colore, non fino a quando sono piume, ma perché cessano di essere piume.

Ecco perché la stessa materia è soggetta al mutamento e per il fatto che cessa di esistere quell'animale o quella piuma e quel corpo tutto intero si muta e converte4 in terra, essa perde evidentemente anche quel colore.

Certo anche l'accidente che si chiama separabile scompare non per separazione, ma per mutazione.

Così, ad esempio, il nero dei capelli umani, poiché i capelli possono incanutire, si chiama accidente separabile.

Ma per gli osservatori attenti appare sufficientemente evidente che non vi è separazione, come se qualche cosa emigrasse dalla testa che incanutisce, in modo tale che il nero si ritiri e se ne vada altrove per lasciar posto al bianco, ma che qui c'è proprio un mutamento ed una trasformazione della qualità del colore.

Perciò nulla è accidente in Dio, perché in lui nulla vi è che possa mutare e che possa scomparire.

Se poi si vuole chiamare accidente anche ciò che, sebbene non scompaia, tuttavia diminuisce e si accresce, come la vita dell'anima - per tutto il tempo infatti che l'anima esiste, vive, e poiché l'anima esiste sempre, sempre essa vive; ma essa vive più intensamente quando è saggia, meno finché è insipiente, ed è questo una specie di mutamento, che non fa cessare la vita, come all'insensato viene a mancare il buon senso, ma la diminuisce - nemmeno qualcosa di questo genere accade in Dio, perché egli rimane assolutamente immutabile.

5.6 - Le relazioni divine

Dunque in Dio nulla ha significato accidentale, perché in lui non vi è accidente, e tuttavia non tutto ciò che di lui si predica, si predica secondo la sostanza.

Nelle cose create e mutevoli, ciò che non si predica in senso sostanziale, non può venir predicato che in senso accidentale.

In esse è accidente tutto ciò che può scomparire o diminuire: le dimensioni, le qualità e le relazioni, come le amicizie, parentele, servitù, somiglianze, uguaglianze e le altre cose di questo genere; la posizione, il modo di essere, lo spazio e il tempo, l'azione e la passione.5

Ma in Dio nulla si predica in senso accidentale, perché in Lui nulla vi è di mutevole; e tuttavia non tutto ciò che si predica, si predica in senso sostanziale.

Infatti si parla a volte di Dio secondo la relazione;6 così il Padre dice relazione al Figlio e il Figlio al Padre, e questa relazione non è accidente, perché l'uno è sempre Padre, l'altro sempre Figlio.

Sempre non nel senso che il Padre non cessi di essere Padre dal momento della nascita del Figlio, o perché da questo momento il Figlio non cessa mai di essere Figlio, ma nel senso che il Figlio è nato da sempre e non ha mai cominciato ad essere Figlio.

Perché se avesse cominciato in un certo tempo ad essere Figlio, ed un giorno cessasse di esserlo, questa sarebbe una denominazione accidentale.

Se invece il Padre fosse chiamato Padre in rapporto a se stesso e non in relazione al Figlio, e se il Figlio fosse chiamato Figlio in rapporto a se stesso e non in relazione al Padre, l'uno sarebbe chiamato Padre, l'altro Figlio in senso sostanziale.

Ma poiché il Padre non è chiamato Padre se non perché ha un Figlio ed il Figlio non è chiamato Figlio se non perché ha un Padre, queste non sono denominazioni che riguardano la sostanza.

Né l'uno né l'altro si riferisce a se stesso, ma l'uno all'altro e queste sono denominazioni che riguardano la relazione e non sono di ordine accidentale, perché ciò che si chiama Padre e ciò che si chiama Figlio è eterno ed immutabile.

Ecco perché, sebbene non sia la stessa cosa essere Padre ed essere Figlio, tuttavia la sostanza non è diversa, perché questi appellativi non appartengono all'ordine della sostanza, ma della relazione; relazione che non è un accidente, perché non è mutevole.

6.7 - Argomentazione degli Ariani sulla voce "Ingenerato"

Gli Ariani credono di controbattere queste argomentazioni nel modo seguente: Padre è una denominazione relativa al Figlio, e Figlio al Padre, ma "ingenerato" e "generato" non implicano alcuna relazione; si dicono invece in rapporto a se stessi.

Infatti dire "ingenerato" non è la stessa cosa che dire "Padre", perché anche se non avesse generato il Figlio, nulla impedirebbe di chiamarlo ingenerato, e quando qualcuno genera un figlio non per questo è egli stesso ingenerato.

Generati da altri uomini, gli uomini ne generano essi stessi degli altri.

Dicono dunque: "Padre" è un nome relativo al Figlio, e "Figlio" un nome relativo al Padre, ma "ingenerato" è un nome assoluto, come pure "generato".

Perciò, se ogni nome assoluto concerne la sostanza e d'altra parte non è la stessa cosa essere ingenerato ed essere generato, ne consegue che la sostanza è diversa.

Quando parlano così non comprendono che fanno sull'"ingenerato" un'asserzione che richiede un esame più attento.

Infatti non perché uno è ingenerato è per questo padre, né perché padre è per questo ingenerato, e perciò si ritiene che "ingenerato" non ha senso relativo, ma assoluto.

Non avvertono a causa di uno straordinario accecamento che "generato" invece non può non avere un senso relativo.

Perciò è chiaro che uno è figlio perché generato, e generato perché figlio.

Ma come figlio dice relazione a padre, così generato a genitore, e come padre dice relazione a figlio, così genitore a generato.

Dunque genitore e ingenerato sono due concetti distinti.

Certo l'uno e l'altro appellativo è attribuito a Dio Padre: tuttavia l'uno è relativo al generato, cioè al Figlio, cosa che nemmeno gli Ariani negano, l'altro - "ingenerato" - è assoluto, come essi affermano.

Perciò dicono: "Se è attribuita al Padre una denominazione di ordine assoluto, che non può essere attribuita in senso assoluto al Figlio, e d'altra parte ogni denominazione assoluta concerne la sostanza, poiché "ingenerato", appellativo che non si può applicare al Figlio, ha senso assoluto, ne consegue che "ingenerato" si dice in senso sostanziale, e così il Figlio, perché non si può chiamare ingenerato, non è della stessa sostanza".7

Ecco come si risponde a questa argomentazione astuta per costringerli a dire in che cosa il Figlio sia uguale al Padre: è uguale per ciò che è in senso assoluto o per la relazione al Padre?

Ora non è uguale in quanto dice relazione al Padre, perché figlio è un termine relativo a padre, ma il padre non è figlio, bensì padre.

Infatti padre e figlio non sono dei correlativi, come amici o vicini.

Si parla di amico in relazione ad un amico e, se i due si amano ugualmente, l'amicizia è identica in ambedue.

Così pure si parla di vicino in relazione ad un vicino; e, poiché i vicini sono ugualmente vicini tra loro ( perché l'uno è tanto vicino all'altro, quanto questo a quello ) la vicinanza è identica in ambedue.

Ma figlio non dice relazione al figlio, ma ad un padre e perciò non è nel senso della sua relazione al Padre che il Figlio è uguale al Padre.

Il Figlio dunque non può essere uguale che in senso assoluto.

Ma tutto ciò che si afferma in senso assoluto concerne la sostanza; perciò l'uguaglianza del Figlio non può essere che di ordine sostanziale.

Dunque il Padre ed il Figlio sono di una stessa sostanza.

Ma quando si dice che il Padre è ingenerato, non si designa ciò che è, bensì ciò che non è,8 mentre la negazione del relativo non è una negazione di ordine sostanziale, perché il relativo non concerne la sostanza.

7.8 - La negazione non muta il predicamento

Ciò apparirà più chiaro con alcuni esempi.

Anzitutto occorre osservare che "generato" ha lo stesso senso di "figlio".

Infatti uno è figlio perché generato e generato perché figlio.

Di conseguenza, quando si dice "ingenerato" si nega che sia figlio.

Ma "generato" e "ingenerato" sono parole correnti, mentre in latino, se c'è il termine filius, il linguaggio usuale non autorizza la parola infilius.

Tuttavia si conserva integro il senso se si dice: non filius, come pure se si dice: non genitus; dato che "ingenerato" non significa altro che "non generato".

Allo stesso modo "vicino" ed "amico" sono termini ugualmente relativi, ma non si può tuttavia dire: invicinus, come si dice: inimicus.

Perciò nelle cose non bisogna badare a ciò che permette o non permette l'uso del nostro linguaggio, ma quale senso riflettano le cose stesse.

Non diciamo qui, dunque, "ingenerato" benché il latino lo permetta, ma in suo luogo diciamo: "non generato", che ha lo stesso senso.

Ma allora non è lo stesso che dire "non figlio"? Premettere la particella negativa non conferisce un senso sostanziale a un termine che, privo di essa, ha un senso relativo.

Si nega soltanto ciò che senza di essa veniva affermato, come negli altri predicamenti.

Quando diciamo, per esempio, "È un uomo", designiamo la sostanza.

Chi dice dunque: "Non è un uomo" non enuncia un'altra specie di predicamento, ma soltanto nega il medesimo.

Come ha un senso sostanziale la mia affermazione: "È un uomo", ha un senso sostanziale la mia negazione, quando dico: "Non è un uomo".

E se qualcuno mi chiede la statura di quest'uomo e rispondo: Quadripedalis, cioè "quattro piedi", la mia affermazione concerne la quantità, e chi dice: "Non è di quattro piedi", la sua negazione concerne la quantità.

"È bianco" è un'affermazione che si riferisce alla qualità; "Non è bianco" è una negazione che riguarda la qualità.

"È vicino", è un'affermazione di relazione; "Non è vicino" è una negazione di relazione.

È la posizione che affermo, quando dico: "Giace"; ed è la posizione che nego quando dico: "Non giace".

È la maniera esteriore di essere che affermo, quando dico: "È armato"; è questa maniera di essere che nego, quando dico: "Non è armato"; ed è la stessa cosa se dico: "È inerme".

Quando dico: "È di ieri", affermo il tempo; nego il tempo quando dico: "Non è di ieri".

E quando dico: "È a Roma", la mia affermazione riguarda il luogo, e la mia negazione si riferisce al luogo quando dico: "Non è a Roma".

Parlo dell'azione quando affermo: "Percuote"; e pure dell'azione nella negazione: "Non percuote", per dire che non fa questo.

Infine, quando dico: "È percosso", chiamo in causa il predicamento detto passione, ed escludo questo stesso predicamento dicendo: "Non è percosso".

E così non c'è alcun tipo di predicamento riferendoci al quale noi vogliamo formulare un'affermazione, senza che siamo costretti a negare nei termini dello stesso predicamento, se noi vogliamo far uso, preponendola, della particella negativa.9

Stando così le cose,10 se mi riferisco alla sostanza quando dico "Figlio", alla sostanza si riferisce la mia negazione quando dico: "Non figlio".

Ma poiché alla relazione si riferisce la mia affermazione, quando dichiaro: "È figlio", perché dice relazione ad un padre, la mia negazione ha pure un senso relativo quando dirò: "È non figlio", perché lo riferisco al Padre, volendo dimostrare che non ha un padre.

Ma se dire figlio ha lo stesso senso che dire "generato", come abbiamo detto prima, dire "non generato" ha lo stesso senso che dire "non figlio".

Ora ha un senso negativo la nostra negazione: "Non figlio"; dunque anche la nostra negazione: "Non generato".

Ma "ingenerato" è una cosa diversa da "non generato"?

Non si esce dunque dal predicamento della relazione quando si dice "ingenerato".

Il termine "generato" non si rapporta al soggetto in se stesso, ma significa che esso ha origine dal genitore; così quando si dice "ingenerato", non si indica un rapporto al soggetto in se stesso, ma si vuole dire che questo non ha un genitore.

Ora tuttavia tutte e due le espressioni appartengono al medesimo predicamento, quello chiamato relazione.

Ora un termine relativo non significa la sostanza.

Di conseguenza, nonostante la diversità di "generato" e "ingenerato", essi non indicano una diversità di sostanza, perché, come "figlio" si riferisce a "padre", e "non-figlio" a "non-padre", così "generato" dice relazione necessariamente a "genitore" e "non-generato" a "non-genitore".

8.9 - Alcuni attributi si applicano a Dio in senso sostanziale, altri in senso relativo, altri in senso figurato

Pertanto teniamo anzitutto ben fermo questo: tutto ciò che a quella eccelsa e divina sublimità si attribuisce in senso assoluto ha significato sostanziale; ciò che si attribuisce nel senso della relazione11 non concerne la sostanza, ma la relazione.

Teniamo ben fermo anche che nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo l'identità di sostanza è talmente potente che tutto ciò che si attribuisce a ciascuno di essi in senso assoluto va inteso non al plurale collettivo, ma al singolare.

Così il Padre è Dio, anche il Figlio è Dio, ugualmente lo Spirito Santo è Dio, e questo è un appellativo di ordine sostanziale, nessuno ne dubita; tuttavia non sono tre dèi, ma noi diciamo che la eccelsa Trinità è un Dio solo.

Così il Padre è grande, grande è il Figlio, grande anche lo Spirito Santo; né tuttavia vi sono tre grandi, ma un solo grande.

Non è infatti soltanto del Padre, come gli Ariani ritengono a torto, ma del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo che è stato scritto: Tu sei il solo Dio, grande. ( Sal 86,10 )

Così pure il Padre è buono, il Figlio è buono, lo Spirito Santo è buono; ma non vi sono tre buoni, bensì un solo buono, del quale la Scrittura dice: Nessuno è buono se non Dio. ( Mc 10,18; Lc 18,19 )

Infatti il Signore Gesù per non essere considerato soltanto un uomo da colui che si era rivolto a lui come ad un uomo, invocandolo: Maestro buono, ( Mt 19,16; Mc 10,17; Lc 18,18 ) non disse: "Nessuno è buono, se non il Padre solo", ma: Nessuno è buono, se non Dio solo.

Perché nel nome "Padre" è designato il Padre personalmente, ma nel nome di Dio è designato Lui e il Figlio e lo Spirito Santo, perché la Trinità è un Dio solo.

Invece la posizione, il modo di essere, il luogo, il tempo non si predicano di Dio in senso proprio, ma in senso figurato e metaforico.

Così si dice che sta seduto sui Cherubini, ( 1 Sam 4,4; 2 Re 19,15; 1 Cr 13,6; Is 37,16; Dn 3,55; Sal 80,2; Sal 99,1 ) facendo riferimento alla posizione; vestito dell'abisso come di un abito, ( Sal 104,6 ) facendo riferimento al modo di essere; è detto inoltre: I tuoi anni non avranno fine, ( Sal 102,28; Eb 1,12 ) espressione che si riferisce al tempo; ed anche: Se salirò al cielo, lassù sei, ( Sal 139,8 ) e questo si riferisce al luogo.

Per quanto riguarda l'azione, forse essa si predica solo di Dio in senso pienamente vero; solo Dio infatti fa, senza essere fatto lui stesso, né subisce nulla nella sua sostanza in virtù della quale è Dio.

Perciò: "Il Padre è onnipotente, il Figlio è onnipotente, lo Spirito Santo è onnipotente: tuttavia non vi sono tre onnipotenti, ma un solo Onnipotente, dal quale, per mezzo del quale, per il quale sono tutte le cose; a Lui la gloria". ( Rm 11,36; 1 Cor 8,6 )

Dunque tutto ciò che si attribuisce a Dio in senso assoluto, si attribuisce con tre affermazioni ad ogni singola Persona, cioè al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo, e nello stesso tempo alla Trinità stessa; non al plurale, ma al singolare.

E questo perché per Dio essere ed essere grande non sono cosa diversa, ma per Lui essere ed essere grande sono la stessa cosa.

Perciò, come non parliamo di tre essenze, non parliamo di tre grandezze, ma di una sola essenza e d'una sola grandezza.

Dico "essenza" per esprimere ciò che in greco si dice ούσία, ma noi usiamo più correntemente il termine "sostanza".

Indice

1 Agostino, Confess. 1, 3, 3;
De lib. arb. 14, 37, 38: NBA, III/2;
De mor. Eccl. cath. 1, 11, 19: NBA, XIII/1;
In Io. Ev. tract. 1, 8, 30-33: NBA, XXIV/1-2; C. Ep. fund. 15, 20;
Ambrogio, De fide 1, 16, 106;
Girolamo, Ephes. 1, 2, 13-14;
Plotino, Enn. 6, 4;
Origene, Princ. 4, 3, 30;
Basilio, De Spir. Sancto 9, 22; Spir. 2;
Giovanni Crisostomo, De incompr. Dei nat. 1, 3; In Ps. 138, 2;
Ilario, De Trin. 2, 6; In Ps. 118, 8; 129, 3; 144, 21
2 Agostino, De civ. Dei 12, 2;
Quintiliano, Instit. 2, 14, 2;
Seneca, Ep. 58, 6;
Tertulliano, Apol. 21;
Adv. Prax. 2; 26
3 Alessandro, vescovo di Alessandria, Ep. ad Alexandrum constantinopol.: PL 18, 547-572;
Ambrogio, De Incarnat. 8, 79; De fide 4, 8, 81
4 Cicerone, De orat. 3, 45, 177;
Orat. part. 7, 23
5 Aristotele, Categ. 4, 1b, 25; 2a, 3
6 Aristotele, Categ. 7, 6a, 36; 8b, 24;
Pseudo-Agostino, Categ. X ex Arist. 11
7 Basilio, Adv. Eun. 4, spur. 2, 2
8 Ibid
9 Aristotele, Categ. 4, 1b, 25; 2a, 3
10 Cicerone, In Catil. 1, 5, 10
11 Aristotele, Categ. 6, 6a, 36; 8b, 24;
Pseudo-Agostino, Categ. X ex Arist. 11