Teologia dei Padri

Indice

Il paradiso terrestre e il peccato originale

1. - Libertà e purezza dello stato originario

Dio creò l'uomo con le sue mani, prendendo dal suolo ciò che vi è di più fino, mescolando così armoniosamente la sua potenza con la terra; egli infatti impresse sulla carne da lui plasmata la sua forma, in modo che anche una creatura visibile portasse la forma divina, essendo stato l'uomo plasmato sulla terra a immagine di Dio.

Affinché poi vivesse, Dio gli soffiò sul volto un alito di vita, perché così l'uomo divenisse simile a lui nello spirito, oltre che nella carne.

Con ciò, l'uomo fu libero e padrone di sé, avendolo Dio creato perché avesse autorità su ogni essere della terra.

Dio poi gli diede questo grande mondo, da lui preparato prima della formazione dell'uomo; e glielo diede perché fosse la sua sede con tutto ciò che esso contiene in sé.

In questo regno prestavano l'opera loro anche i servitori di Dio creatore di tutte le cose ( angeli ); la sede era sotto la giurisdizione dell'intendente chiliarca ( Lucifero ), che era stato costituito capo dei suoi conservi.

I servi erano gli angeli, mentre l'intendente chiliarca era l'arcangelo.

Avendo dunque Dio costituito l'uomo signore della terra e di tutto ciò che essa contiene, segretamente lo costituì anche signore di quelli che in essa hanno l'ufficio di servi.

Ma mentre essi erano pienamente maturi, il loro signore, cioè l'uomo, era piccolino, era infante, e doveva crescere ancora per giungere a maturità.

Perché poi potesse nutrirsi e crescere nella gioia, gli fu preparata una dimora migliore di questo mondo: piena d'aria, di bellezza, di luce, di cibo, di piante, di frutti, di acque e di tutto ciò che è necessario alla vita.

Quel luogo si chiamava il Giardino ( paradiso terrestre ).

E questo Giardino era tanto bello e buono, che il Verbo di Dio vi passeggiava costantemente e si intratteneva con l'uomo, prefigurando gli eventi futuri: cioè affermando che con l'uomo avrebbe abitato, avrebbe conversato, con lui sarebbe rimasto a insegnargli la giustizia.

Ma l'uomo era fanciullo e non aveva ancora sviluppato il discernimento, e perciò fu facile al seduttore ingannarlo.

Mentre l'uomo passeggiava nel Giardino, Dio poi gli condusse davanti tutti gli animali, dandogli ordine di imporre a tutti un nome; ogni nome che Adamo diede a un essere vivente, è rimasto il suo vero nome.

Inoltre Dio volle fare per l'uomo un aiuto, ed ecco come si espresse al proposito: Non è bene che l'uomo sia solo; facciamogli un aiuto a lui conforme ( Gen 2,18 ).

Perché fra tutte le creature viventi non se ne era trovata nessuna che fosse un aiuto uguale, pari e simile ad Adamo.

Dio stesso perciò fece scendere un sopore estatico su Adamo e lo fece addormentare, per poter realizzare un'opera da un'altra opera.

Dato che il sonno non esisteva nel Giardino, esso discese su Adamo solo per volontà di Dio; questi poi prese una costola di Adamo e riempì il suo posto di carne; la costola che aveva presa la plasmò in donna e così la presentò ad Adamo.

Questi vedutala disse: Ecco davvero l'osso delle mie ossa e la carne della mia carne: ella si chiamerà donna perché è stata tratta dall'uomo ( Gen 2,23 ).

Adamo ed Eva - questo è infatti il nome della donna - erano nudi e non ne avevano vergogna, perché i loro pensieri erano innocenti come quelli dei fanciulli: non potevano rappresentarsi nello spirito, né pensare nessuna di quelle cose che, sotto il dominio del male, s'originano nell'anima dai desideri voluttuosi e si accompagnano ai piaceri turpi.

Erano in uno stato di integrità, conservavano a pieno la loro natura, perché quello che era stato soffiato sulla carne plasmata era un soffio di vita.

Ora, mentre che questo soffio resta nel suo ordine e nella sua virtù, l'uomo non pensa certo, né immagina cose ignobili; per questo essi non si vergognavano di baciarsi e di abbracciarsi castamente come fanno i fanciulli.

Ireneo di Lione, Dimostrazione della predicazione apostolica, 11-14

2. - La libertà e la sua perdita nel piano salvifico di Dio

Poiché Dio è onnipotente - e inoltre buono, giusto e misericordioso - ha creato tutto buono: ciò che è grande e ciò che è piccolo, ciò che è eccelso e ciò che è infimo.

Dunque, tutto quello che è visibile: il cielo, la terra, il mare e, nel cielo, il sole, la luna e gli altri astri, come, sulla terra e nel mare, gli alberi, i rettili e gli animali di ogni specie; in breve, tutti i corpi terrestri e celesti.

Inoltre, tutto ciò che è invisibile: le anime, da cui i corpi ricevono crescita e forza vitale.

Anche l'uomo egli ha creato, a sua immagine.

Come egli nella sua onnipotenza domina tutto il creato, così l'uomo con la sua ragione - con la quale può riconoscere e onorare il suo Creatore - avrebbe dovuto dominare tutte le realtà terrene.

Gli creò poi in aiuto la donna; non certo per il piacere carnale, perché i loro corpi prima di soggiacere alla mortalità, pena del peccato, non erano soggetti alla corruzione.

No: l'uomo avrebbe dovuto essere onorato dalla sua donna, precedendola nella strada del Signore, dandole esempio di santità e di dedizione, proprio come l'uomo avrebbe dovuto essere la gloria di Dio se avesse seguito la saggezza divina.

Dio pose poi gli uomini in un luogo di perpetua beatitudine, che la sacra Scrittura chiama paradiso, e diede loro un comando, la cui fedele osservanza avrebbe loro assicurato il possesso perpetuo della beata immortalità, e la cui trasgressione sarebbe stata da loro pagata con la pena della morte.

Certo, Dio sapeva già che essi avrebbero trasgredito il comando: tuttavia non omise di crearli, tanto più che aveva già creato gli animali e voleva riempire la terra dei beni terreni: egli è il creatore e la causa di ogni bene.

Del resto, anche nello stato di peccato, l'uomo è sempre migliore degli animali.

Il comando che poi essi non osservarono, lo diede loro perché non avessero scusa alcuna quando egli avrebbe cominciato a punirli.

Agisca pure l'uomo come vuole, Dio si mostra sempre degno di lode in tutto il suo agire: degno di lode per la sua giustizia rimuneratrice, se l'uomo opera il bene; degno di lode anche per la sua giustizia punitrice, se l'uomo pecca; degno di lode per la sua indulgenza misericordiosa, se l'uomo riconosce il suo peccato e ritorna a una vita retta.

Perché dunque Dio non avrebbe dovuto creare l'uomo, anche se sapeva che avrebbe peccato?

Egli gli volle dare la corona, se fosse rimasto nella giustizia; gli volle mostrare il suo giusto posto, se fosse caduto; lo volle infine aiutare, se avesse tentato di risorgere.

Sempre e ovunque deve venir glorificato per la sua bontà, per la sua giustizia e la sua mitezza.

Ma soprattutto egli previde che dalla schiatta mortale sarebbero sorti quei santi che non avrebbero cercato il proprio, ma che avrebbero procurato in tutto la gloria del loro Creatore e, al suo servizio, si sarebbero liberati da ogni corruzione e si sarebbero meritati una vita eterna beata con i santi angeli.

Dio infatti, che aveva dato all'uomo la libera volontà perché lo onorasse non nella necessità servile, ma nella sua libera autodeterminazione, aveva dato la stessa libera volontà anche agli angeli.

Per questo anche quell'angelo che con i suoi seguaci rifiutò per superbia l'obbedienza a Dio tramutandosi in demonio, non ha danneggiato il Signore, ma solo se stesso.

Dio assoggetta al suo ordine anche le anime da lui allontanatesi e, in modo mirabile, dai loro giusti tormenti sa ricavare il bene per le più umili parti del suo creato.

Così né il demonio ha danneggiato Dio quando si è dannato e ha trascinato alla morte l'uomo, né l'uomo ha recato in qualche modo pregiudizio alla verità, alla potenza o alla felicità del suo Creatore quando, cedendo alla sua donna sedotta dal demonio, con lei ha commesso ciò che Dio aveva proibito.

Con somma giustizia, infatti, erano tutti e due soggetti alla legge divina.

Ecco: Dio è qui glorioso nella sua giusta ira; essi stanno qui, invece, pieni di vergogna, nella loro umiliante pena.

Infatti l'uomo che si allontana da Dio è necessariamente umiliato, soggetto e soggiogato dal demonio; ma il demonio trova nell'uomo che si converte al suo Creatore colui che lo vince.

E tutti quelli che sino alla fine si induriscono nella compagnia del demonio, saranno con lui travolti nella dannazione eterna; tutti quelli invece che si piegano umilmente sotto Dio e che con la sua grazia signoreggiano il demonio, riceveranno il premio eterno.

Agostino, Come catechizzare i principianti, 2,29-30

3. - La fonte della beatitudine per tutti gli esseri ragionevoli

Tutti gli esseri immortali e beati che abitano nei cieli … se ci amano e vogliono che noi siamo beati, vogliono certamente che lo siamo in virtù di ciò per cui lo sono loro: o sarà forse diversa la fonte della loro beatitudine e la fonte della nostra?

Su questo problema non vi è nessun conflitto tra noi e i filosofi più distinti.

Essi ritennero infatti, e tramandarono copiosamente nei loro scritti, che quegli spiriti sono beati per quello stesso motivo che noi: per la contemplazione di un certo splendore intelligibile, ben diverso da loro stessi - e che per i platonici è Dio -, che li illumina per farli risplendere e rendere perfetti e beati nella sua partecipazione.

Spesso e con forza Plotino - spiegando il vero senso del pensiero di Platone - asserisce che neppure l'anima del mondo, in cui essi credono, deriva la sua beatitudine da una fonte diversa che noi; da un lume, cioè, che essa non è, ma da cui fu creata, che la illumina di luce intellettuale e intellettualmente risplende.

Applica anche, a quelle realtà incorporee, un esempio tratto dai nostri corpi celesti, grandi e cospicui: quella luce intelligibile sarebbe il sole, e l'anima del mondo, la luna.

Ma la luna, come si ritiene, riceve la sua luce dal sole che le sta di fronte.

Questo grande filosofo platonico dice perciò che l'anima razionale ( ma si dovrebbe piuttosto dire intellettuale, perché egli pensa che di tale genere siano anche le anime degli esseri immortali e beati che, egli ne è sicuro, abitano nei cieli ), l'anima razionale, dunque, non ha al di sopra di sé nessuna essenza se non quella di Dio, che ha creato il mondo, e che ha creato essa stessa; né da altra fonte giunge a quelle essenze superne la vita beata e il lume per cui conoscono la verità che dalla fonte che a noi stessi li dona.

Ciò concorda con il Vangelo, ove leggiamo: Vi fu un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni; questi venne come testimone, a testimoniare sulla luce, perché tutti credessero per mezzo suo.

Non era lui la luce, ma doveva testimoniare sulla luce.

La luce vera era quella che illumina ogni uomo che viene a questo mondo ( Gv 1,6-9 ).

La distinzione qui proposta mostra chiaramente che l'anima ragionevole o intellettuale, quale era quella di Giovanni, non poteva essere la propria luce, ma splendeva per la partecipazione di un'altra luce vera.

Lo riconosce lo stesso Giovanni, ove, proponendo la sua testimonianza, dice: Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto ( Gv 1,16 ).

Agostino, La città di Dio, 10,1-2

4. - La dimora d'ogni gioia e delizia

Prima di creare l'uomo a sua immagine e somiglianza, onde promuoverlo re e principe della terra intera e di tutto ciò che in essa si trova, Iddio gli edificò dapprima la sua reggia affinché, scegliendola come propria sede, l'uomo godesse di una vita beata e piena d'ogni felicità.

Tale, appunto, è quel divino paradiso, piantato nell'Eden dalle mani di Dio, che fu la fonte d'ogni piacere e giocondità ( Eden infatti significa delizie ).

Esso fu collocato in Oriente, nel punto più alto di tutta la terra, opportunamente temperato, ovunque rischiarato da un'aria sottilissima e purissima, provvisto di floride piante, piene di luce e di soavissimo profumo e d'ogni eleganza suscettibile d'essere colta dai sensi, al di sopra d'ogni immaginabile beltà: proprio una regione divina e un degno domicilio per colui che era stato creato a immagine di Dio ( in esso, infatti, non si trovava alcun essere privo di ragione, ma unicamente l'uomo, opera delle mani di Dio ).

Nel mezzo di questo giardino, poi, Iddio aveva piantato gli alberi della vita e della scienza ( Gen 2,9 ).

L'albero della scienza, come prova ed esercizio dell'obbedienza o della disobbedienza dell'uomo.

Per questo motivo fu anche chiamato albero della scienza del bene e del male; ossia perché, a coloro che ne avessero mangiato, avrebbe recato la capacità di conoscere a fondo la propria natura.

La qual cosa, se rappresenta un bene per coloro che sono perfetti, per i meno dotati, invece, forniti di un appetito più avido di come si convenga, procura grave danno ( come un cibo solido per coloro i quali, essendo ancora in tenera età, hanno bisogno di nutrirsi unicamente con il latte [ Eb 5,12-14 ] ).

Infatti Dio, nostro creatore, non voleva che noi, ansiosi e turbati da tante cose, ci preoccupassimo affannosamente della nostra vita: ciò che, alla fine, accadde ad Adamo.

Costui, infatti, avendo gustato il frutto dell'albero, comprese di essere nudo e si coprì: prese delle foglie di fico, se ne cinse i fianchi.

Quando ancora quel frutto non era stato gustato, infatti, entrambi ( cioè Adamo ed Eva ) erano nudi e non se ne vergognavano ( Gen 2,25 ).

Dio voleva, appunto, che noi vivessimo così: privi cioè di qualsiasi preoccupazione; ed inoltre, essendo alieni da ogni sollecitudine, non dovessimo applicarci ad alcuna attività, se non a quella propria degli angeli: celebrare, cioè, il Creatore con perpetue lodi e dilettarci della sua contemplazione, dopo aver gettato sopra di lui ogni preoccupazione, secondo quanto dichiarò il profeta Davide con queste parole: Abbandona al Signore la tua preoccupazione ed egli ti proteggerà ( Sal 55,23 ).

Anche nei Vangeli, insegnando ai suoi discepoli, il Signore dice: Non vi affannate per la vostra vita, di che mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che indosserete ( Mt 6,25 ).

E ancora: Cercate, invece, prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in più ( Mt 6,33 ).

Nel rivolgersi a Marta, disse: Marta, Marta, ti affanni e ti agiti per troppe cose.

Ebbene, c'è necessità d'una cosa sola.

Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta ( Lc 10,41-42 ).

Gesù voleva, cioè, che anche Marta si sedesse ai suoi piedi e ascoltasse le sue parole.

L'albero della vita, a sua volta, aveva la capacità di donare la vita oppure era commestibile unicamente per coloro che ne fossero degni, cioè che non fossero soggetti alla morte.

Alcuni hanno immaginato che il paradiso costituisse un giardino sensibile; altri, invece, intellettivo.

La mia opinione è la seguente: dal momento che l'uomo era stato creato come essere tanto sensibile quanto spirituale, allo stesso modo anche il sacratissimo tempio a lui destinato doveva essere, contemporaneamente, sia spirituale che sensibile, presentando in tal modo un duplice aspetto.

Con il corpo, infatti, l'uomo abitava, come si è detto, in una regione divinissima e bellissima; con l'anima, invece, in un luogo più alto, la cui bellezza era al di sopra di ogni possibile confronto.

Ivi l'uomo aveva Dio come ospite, si rivestiva della sua grazia e godeva della sua contemplazione, unico dolcissimo frutto, come se fosse stato anche lui un angelo.

Per questo motivo, appunto, viene giustamente chiamato « albero della vita ».

La dolcezza della partecipazione divina, infatti, dona a coloro che vi attingono una vita non interrotta da nessuna morte.

Giovanni Damasceno, Esposizione della fede ortodossa, 2,11

5. - La beatitudine paradisiaca

Nessuno può venir detto beato se è oppresso dal timore o afflitto dal dolore.

Ma cosa potevano temere o di cosa potevano soffrire i primi uomini, in tanta abbondanza di beni, quando non si aveva paura della morte e di nessuna malattia?

Non mancava nulla di cui la buona volontà potesse impossessarsi, né era nulla che offendesse la carne e lo spirito dell'uomo che viveva felice; vi era un amore imperturbabile di Dio, una concordia schietta e sincera fra i coniugi, e da questo amore sorgeva una grande gioia, poiché era possibile godere l'oggetto di tale amore.

Potevano evitare con tutta tranquillità il peccato, e finché si fossero mantenuti in quella situazione nessun altro male poteva piombare loro addosso a rattristarli.

Tuttavia, forse desideravano toccare l'albero proibito per mangiarne i frutti, ma temevano la morte: per questo, forse che il desiderio e il timore li affliggeva già in quel santo luogo?

Lungi da noi il pensiero che le cose stessero così, là dove non esisteva affatto nessun peccato; e non è senza peccato desiderare ciò che la legge di Dio proibisce e astenersene solo per timore della pena non per timore della giustizia.

Lungi da noi, ripeto, ritenere che prima di ogni peccato già là vi fosse un tale peccato, per il quale essi si sarebbero comportati nei confronti dell'albero come disse il Signore, parlando della donna: Se qualcuno guarderà una donna per desiderarla, in suo cuore ha già commesso adulterio con lei ( Mt 5,28 ).

Come erano dunque felici i primi uomini - non agitati da nessun turbamento dell'animo, non angustiati da nessuna sofferenza del corpo - tanto felice sarebbe tutta la stirpe umana, se essi non avessero commesso quel male che tramandarono nei posteri; e anche se nessuno della loro stirpe commettesse l'iniquità per la quale sarà personalmente condannato.

E in tale felicità sarebbero rimasti fino a quando - per la benedizione: Crescete e moltiplicatevi ( Gen 1,28 ), come sta scritto, - non si fosse completato il numero dei santi predestinati, quando sarebbe stata data loro quella felicità maggiore, elargita agli angeli santi: in quello stato avrebbero avuto la certezza che nessuno poteva peccare e nessuno doveva morire; e la vita dei santi sarebbe stata tale, senza dover sperimentare fatica, dolore e morte, quale sarà la presente nostra vita, passata per tutte queste sofferenze, restituita all'incorruzione del corpo dopo la risurrezione dei morti.

Agostino, La città di Dio, 14,10

6. - Il significato del divieto del frutto

Il Signore, nella sua bontà, volendo fin da principio insegnare all'uomo che il suo stesso creatore era artefice di tutte le cose visibili, gli mostrò, attraverso un piccolo comandamento, di essere lui il Signore.

Pertanto, come un padrone generoso che metta a disposizione di qualcuno una grande e magnifica abitazione, conservandone tuttavia per sé una piccolissima parte onde preservare il suo diritto di proprietà ( mentre l'altro si rende conto di non essere lui il proprietario dell'edificio, ma di godere del favore e della beneficenza di quel signore ); non diversamente anche nostro Signore, donando all'uomo tutta la realtà visibile e concedendogli di vivere nel paradiso e di godere di tutto quanto vi si trovava, gli comandò tuttavia di astenersi da un unico albero, dopo aver stabilito un grave castigo in caso di trasgressione.

Dio fece questo affinché l'uomo, sedotto a poco a poco nell'animo, non ritenesse che le cose che cadevano sotto i suoi occhi si muovessero spontaneamente e si inorgoglisse della propria dignità, ma si rendesse conto di avere un Signore, grazie alla cui generosità godeva di tutte le altre cose.

Ciò nondimeno, dal momento che l'uomo cadde in grave rovina, comportandosi sconsideratamente insieme con la sua donna nel trasgredire il precetto per aver gustato di quell'albero, Iddio lo chiamò « l'albero della conoscenza del bene e del male ».

Tale denominazione, perciò, non è dovuta al fatto che, prima di allora, l'uomo e la donna avessero ignorato il bene e il male.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 16

7. - Il bene dell'obbedienza

L'uomo era sottoposto a un comandamento; aveva udito dal Signore Dio le parole: « Non toccare ».

Che cosa? Quest'albero ( Gen 2,17 ).

Ma, che cosa è quest'albero? Se è buono, perché non debbo toccarlo?

Se è cattivo, che cosa ci fa qui in paradiso?

Senza dubbio è in paradiso perché è buono; ma non voglio che tu lo tocchi.

Ma perché non debbo toccarlo?

Perché voglio che tu sia un obbediente, non un contestatore ribelle …

Qui è tutta la questione …

Non poteva Dio mostrare in modo più perfetto quanto sia grande il bene dell'obbedienza, che proibendo qualcosa che non era cattiva.

Lì si dà il premio solo all'obbedienza, e solo la disobbedienza viene punita.

É buono, ma io non voglio che tu lo tocchi.

Solo non toccandolo eviterai la morte …

E se lo toccherai, sarà forse quell'albero diventato così cattivo da farti morire?

É la disobbedienza che ti ha sottoposto alla morte, poiché tu hai toccato una cosa proibita.

Per questo quell'albero fu chiamato « albero della conoscenza del bene e del male » ( Gen 2,17 ).

Non perché il bene e il male pendessero dai suoi rami come pomi, ma, qualunque fosse quest'albero, di qualsiasi genere fossero i suoi frutti, esso venne chiamato così perché l'uomo, che non aveva voluto discernere il bene dal male obbedendo al precetto divino, avrebbe dovuto discernerlo per sua esperienza personale.

Toccando cioè quello che gli era stato proibito si sarebbe procurato il supplizio …

Che cosa gli mancava? Perché volle toccare l'albero, se non perché volle approfittare al massimo della sua libertà e perché gli sembrò gustoso infrangere l'ordine ricevuto?

Volle scuotere ogni potere a lui superiore e diventare come Dio, poiché a Dio non comanda nessuno …

Dove è ora? É sicuramente prigioniero, se grida: O Signore, chi è simile a te? ( Sal 35,10 ).

Agostino, Esposizioni sui Salmi, II, 70,7

8. - L'albero della vita e della morte

Iddio, nell'impartire il comandamento ad Adamo, gli ordinò di non astenersi da nessun altro albero, se non da quell'unico a causa del quale, avendo l'uomo osato di mangiarne, gli venne inflitta la pena di morte.

Riguardo a quest'albero il Signore fece ad Adamo delle precisazioni in vista della trasgressione, nulla tuttavia ingiungendogli a riguardo dell'albero della vita.

Infatti, dal momento che, secondo quanto è lecito intendere, Dio creò l'uomo immortale, costui, se avesse voluto, avrebbe potuto nutrirsi, insieme con gli altri, anche di questo albero che gli avrebbe recato vita perpetua.

Perciò nessun comando ricevette a suo riguardo.

Se poi qualche curioso volesse conoscere il motivo per il quale sia stato chiamato « albero della vita », sappia allora che l'uomo non può, poggiandosi sui propri ragionamenti, comprendere tutte le opere di Dio.

Infatti, sembrò al Signore opportuno porre nel paradiso codesti due alberi ( uno della vita; un altro, per così dire, della morte ), affinché l'uomo, vivendo in paradiso, avesse così modo di dimostrare la propria obbedienza o disobbedienza.

Il suo mangiare dell'albero proibito, infatti, nonché la trasgressione del comando, gli recarono la morte.

Quando l'uomo, dopo aver mangiato il frutto di quell'albero, divenne mortale e schiavo dei bisogni del corpo, il peccato fece per la prima volta il suo ingresso nel mondo.

D'allora in poi Dio, pur risparmiandogli la morte, non permise ad Adamo di rimanere nel paradiso, ma gli ingiunse di allontanarsene.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 18

9. - L'immortalità, anche nella condizione originaria, era un punto d'arrivo

Si deve sapere che Dio ha infuso nella nostra natura la virtù e che Dio stesso è fonte e autore d'ogni bene, in maniera che, senza la sua opera e il suo aiuto, non siamo in grado né di compiere, né di desiderare il bene.

D'altronde, è in noi che risiede la libertà di perseverare nella virtù, seguendo Iddio che ad essa ci chiama, ovvero di desistere dalla medesima, aderendo al peccato e seguendo la guida del diavolo che ci attira fortemente verso di esso.

Il male, infatti, altro non è se non l'allontanamento dal bene, non diversamente da come il buio stesso è un allontanamento dalla luce.

Pertanto, perseverando nella condizione propria della natura, siamo nella virtù; allontanandocene, invece, abbandoniamo la virtù, precipitando in ciò che alla natura ripugna: cioè nel peccato.

Il pentimento, poi, consiste nel passare da ciò che è contro natura a quanto ad essa è conforme: il ritorno, cioè, attraverso pratiche ascetiche e sacrifici, dal demonio a Dio.

Il Creatore dunque creò l'uomo maschio, conferendogli la sua divina grazia e comunicandosi a lui per mezzo di quest'ultima.

Pertanto l'uomo, in qualità di profeta, impose con autorità i nomi agli animali, come se fossero schiavi a sua disposizione.

Infatti, essendo stato creato a immagine di Dio e provvisto, per ciò stesso, di ragione, di intelligenza e di libero arbitrio, giustamente gli venne affidato, da parte del comune Creatore e Signore di tutto, il primato sull'intera realtà terrena.

Ma poiché Dio, nella sua prescienza, sapeva che l'uomo avrebbe violato la legge impostagli e sarebbe piombato nella corruzione, per questo motivo creò da lui la donna, simile all'uomo e sua collaboratrice.

Dico « collaboratrice » affinché, per mezzo di lei, si conservasse, succedendosi attraverso la generazione, l'umano genere.

In principio, infatti, si deve parlare di creazione, non di generazione.

La creazione, appunto, è quella prima formazione dell'uomo che avviene grazie all'intervento diretto e personale di Dio.

La generazione, invece, costituisce quella successione per mezzo della quale, in seguito alla sentenza di morte, veniamo generati gli uni dagli altri.

Iddio, inoltre, aveva collocato quest'uomo in un paradiso tanto spirituale quanto sensibile; la creatura umana, infatti, sebbene vivesse con il corpo in un ambiente sensibile e terrestre, dimorava altresì spiritualmente insieme con gli angeli, coltivando quei divini pensieri dei quali si nutriva.

L'uomo, nudo grazie alla sua innocenza e alla sua vita aliena da ogni malizia, sollevandosi, per mezzo del creato, verso l'unico Creatore, si dilettava con somma giocondità della di lui contemplazione.

Iddio dunque, avendo decretato che l'uomo fosse naturalmente fornito di libera volontà, sancì per lui la seguente norma: non gustare dell'albero della scienza.

Di tale albero abbiamo parlato sopra, nel capitolo sul paradiso, esponendo quanto ci è riuscito.

D'altra parte, nell'impartirgli questo comando, gli promise che, se avesse custodito la dignità della sua anima e fatto prevalere la sua ragione riconoscendo il Creatore e osservando il suo precetto, l'uomo avrebbe goduto di un'eterna beatitudine e, sfuggendo alla morte, avrebbe vissuto per sempre.

Ma se, al contrario, misconoscendo la propria dignità e rendendosi simile agli esseri bruti ( Sal 49,13 ), avesse sottomesso lo spirito al corpo e ritenuto più degne le voluttà dei sensi, scuotendo il giogo del Creatore e calpestando il suo divino precetto; in tal caso l'uomo sarebbe divenuto soggetto alla morte e alla corruzione e, conducendo una misera esistenza, si sarebbe sottomesso alla necessità di faticare.

Pertanto, all'uomo non ancora tentato e messo alla prova, non sarebbe stato conveniente essere dotato dell'immortalità, allo scopo di non cadere nella superbia e nella condanna inflitta al demonio.

L'immortalità della quale fosse stato fornito, infatti, avrebbe fatto sì che l'uomo, una volta caduto per sua libera volontà, da allora in poi sarebbe stato afflitto, nel male, da una perseveranza immutabile e senza possibilità di pentimento.

Non diversamente da come gli angeli, all'opposto, dopo la loro elezione, ad opera della grazia divina, si stabilirono così profondamente nel bene, da non poter ormai, in alcun modo distogliersene.

Bisognava perciò, anzitutto, che l'uomo fosse messo alla prova; un uomo non provato né tentato, infatti, non ha alcun valore ( Sir 34,11 ).

In seguito a tale prova, poi, diventando perfetto in virtù dell'osservanza del precetto, avrebbe infine conseguito l'immortalità, come premio della virtù.

L'uomo, infatti, posto in una dimensione intermedia fra Dio e la materia, era stato creato in maniera tale che, nel caso in cui avesse obbedito all'ordine, liberandosi del suo naturale condizionamento rispetto alle cose create e legandosi a Dio con un amore saldissimo, avrebbe conseguito un'incrollabile perseveranza nel bene.

Giovanni Damasceno, Esposizione della fede ortodossa, 2,30

10. - Il seduttore

Grazie alla meravigliosa provvidenza, si verifica una certa armonia fra ciò che partecipa dell'intelligenza e la natura sensibile, in maniera che nulla della creazione sia da respingere, come afferma l'Apostolo ( 1 Tm 4,4 ), né risulti privato della comunione divina.

Per tale motivo, attraverso l'elemento spirituale e quello sensibile, avviene nell'uomo, ad opera della natura divina, una certa mescolanza, secondo quanto insegna il libro sulla creazione del mondo.

Infatti dice: avendo preso del fango dalla terra, Iddio plasmò l'uomo ( Gen 2,7 ) e, per mezzo del proprio soffio, infuse la vita in quella statua di terra.

E ciò allo scopo di trarre, insieme a ciò che è divino, anche l'elemento terrestre, pervadendo di un'unica grazia e d'una medesima dignità l'intera creazione e armonizzando la natura inferiore con quella soprannaturale.

La creatura umana, infatti, partecipando dell'intelligenza e persino di ciascuna delle funzioni proprie delle virtù angeliche, costituiva, per opera di quell'autorità che ha creato e presiede il tutto, la potenza incaricata di organizzare e dominare l'universo, tenendo in suo possesso quanto vi è contenuto; e ciò per mezzo di quelle forze ricevute, a tal scopo, da quell'autorità, appunto, che regge e amministra l'universo.

Proprio a questo fine, perciò, è stato creato, con l'uomo, un tal simulacro della suprema potestà …

Non è compito di quest'opera enucleare con precisione e in profondità come l'uomo sia caduto nel peccato dell'invidia, dopo esser stato creato innocente da colui che aveva originato l'universo nella bontà.

Anche per i più scettici il discorso potrebbe esaurirsi in poche parole.

Non bisogna credere affatto che la virtù e il peccato differiscano l'uno dall'altra per ciò che ciascuno di essi rappresenta in se stesso.

Viceversa, allo stesso modo come il non essere si distingue come il contrario dell'essere, né può dirsi che l'essere e il non essere siano diversi in se stessi, ma diciamo, appunto, che il non essere differisce dall'essere in quanto ne costituisce il contrario; ebbene, non diversamente anche il vizio si contrappone alla virtù, non per ciò che esso rappresenti in se stesso, ma qualora lo si intenda in quanto alienazione di ciò che è migliore.

Ovvero, ancora, allo stesso modo come riconosciamo nella cecità il contrario della vista, differendo la prima dalla seconda non per il fatto di trovarsi in se stessa nella natura delle cose, ma in quanto costituisce una privazione di ciò che prima era stata una normale facoltà fisica; parimenti, anche il vizio noi lo consideriamo come una privazione del bene, un'ombra che intralcia la luce.

Mentre la natura increata non è suscettibile di alcun movimento che dia luogo a conversione o mutamento o alterazione, tutto quanto esiste per esser stato creato, invece, subisce un intrinseco mutamento; il principio stesso della creazione, d'altronde, cominciò da un cambiamento: ciò che non era, infatti, fu tradotto dalla virtù divina in ciò che è.

Era stata poi anche creata, nella creatura umana, la suddetta facoltà di scegliere, secondo la libera inclinazione del suo arbitrio, ciò che le sembrava opportuno.

Pertanto, come colui il quale, chiusi gli occhi davanti al sole, non vede che le tenebre; così anche l'uomo, avendo rifiutato di contemplare il bene, concepì ciò che gli era contrario: l'invidia.

Ora, è chiaro che il principio di qualsiasi cosa non è che la causa di quanto accade di conseguenza dopo di esso.

Ad esempio, la salute è la causa della sana costituzione, dell'attività, del benessere; la malattia, dal canto suo, è la causa della debolezza, a motivo della quale non ci si può muovere e si conduce l'esistenza nel dolore e nella tristezza.

Così insomma, generalmente, tutti i fenomeni sono la conseguenza dei loro princìpi generatori.

Orbene, come allora l'impeccabilità è il principio e il fondamento di una vita virtuosa, così la propensione al male, attraverso l'invidia, ha spianato la strada a tutti i mali che si sono avuti dopo di questa …

Anche l'uomo, perciò, distoltosi dalla naturale disposizione al bene e inclinando verso il male, spontaneamente, come trascinato da un peso, venne sospinto verso il limite estremo della corruzione.

Persino quel raziocinio, che l'uomo aveva ricevuto dal Creatore per aiutarlo a ricercare il bene, perseguendo adesso quelle cose che sono ispirate dal peccato, circuisce l'uomo con l'astuzia e l'inganno, persuadendolo ad infliggersi la morte e ad essere omicida di se stesso.

Dapprima l'uomo, infatti, rafforzato dalla divina benedizione, era detentore di una dignità sublime; era stato creato per regnare sulla terra e su tutte le cose che vi si trovano, era poi bello, essendo stato creato a immagine della bellezza esemplare; era impeccabile per natura, essendo l'imitatore di colui che peccare non può; era ardito nel parlare, usufruendo del piacere di parlare faccia a faccia con Dio che gli appariva davanti.

Tutto questo, però, era fonte d'invidia e d'irritamento per l'avversario, non potendo costui compiere apertamente ed efficacemente quanto aveva in animo, dal momento che la potenza della benedizione di Dio era maggiore delle sue forze.

Per questo motivo il demonio tramò per distogliere l'uomo dall'influsso di quella potenza che lo corroborava, mettendo così apertamente in atto le proprie insidie.

E come quando nella lucerna si è accesa la favilla del fuoco e qualcuno, non potendo spegnere la fiamma con il soffio, mescola l'acqua con l'olio, rendendo in tal modo quella debole ed evanescente; così l'avversario, avendo mescolato il peccato con il libero arbitrio, fece sì che, in qualche modo, la benedizione si estinguesse e svanisse.

Una volta venuta a mancare quest'ultima, le tenne dietro il suo contrario.

Così la morte sopraggiunge a contrapporsi alla vita, la debolezza alle forze, l'esecrazione alla benedizione, la vergogna alla sicurezza di sé: ad ogni bene, insomma, il suo contrario.

Or dunque, avendo un tal principio, come si diceva, offerto occasione e argomento ad una simile conclusione, ecco allora spiegato il motivo per il quale l'uomo, attualmente, versi nelle dolorose condizioni presenti.

Gregorio di Nissa, Grande Catechesi, 6

11. - Il peccato originale

L'uomo viveva secondo Dio nel paradiso, che era insieme corporeo e spirituale.

Non si trattava di un paradiso corporale, per i beni del corpo, senza che fosse spirituale, per i beni dell'anima; e neppure spirituale, per il godimento dei sensi intimi, senza che fosse corporeo, per il godimento dei sensi esteriori.

Aveva tutti e due questi aspetti, per tutti e due questi aspetti.

Ma poi l'angelo superbo, e perciò invidioso, che per la sua stessa superbia si era staccato da Dio, scegliendo, quasi con alterigia di tiranno, di farsi dei sudditi, piuttosto che restare suddito, cadde dal suo paradiso spirituale.

Volendo insinuarsi con la sua astuzia perversa nell'animo dell'uomo - che invidiava, perché ancor buono, mentre egli era cattivo -, introdottosi nel paradiso corporeo, dove i due progenitori, l'uomo e la donna, vivevano in compagnia di tutti gli altri animali mansueti e inoffensivi, scelse ivi il serpente - animale lubrico, che si muove con mosse tortuose, e bene adatto al suo scopo - per poter parlare dalla sua bocca.

Assoggettatoselo dunque per la sua presenza angelica, per la sua natura superiore e la sua spirituale nequizia, e usandolo come strumento, rivolse la sua parola ingannatrice alla donna: cominciando, cioè, dal soggetto inferiore della coppia umana, per giungere gradatamente ad essa tutta, pensando che l'uomo non gli avrebbe creduto, né si sarebbe lasciato trarre in inganno, se non dalla convinzione errata altrui …

Sembra poi doversi ritenere che l'uomo violò la legge di Dio non perché credesse nella verità di ciò che gli disse la donna, ma da lei sedotto, uno con una, uomo con uomo, coniuge con coniuge, per il forte vincolo sociale che a lei lo legava.

Non è senza motivo, infatti, che l'Apostolo dice: Adamo non è stato sedotto, la donna invece è stata sedotta ( 1 Tm 2,14 ).

Essa tenne per vero ciò che le disse il serpente; egli invece non volle da lei separarsi, neppure a costo di stare uniti nel peccato; per questo, non è meno reo, ma certamente peccò sapendo e riflettendo …

Dunque egli non fu sedotto, come lo fu la moglie, né fu ingannato, come è da giudicare dalla scusa che poi addusse: La donna che mi hai dato, essa me l'ha data e io l'ho mangiata ( Gen 3,12 ).

E con ciò? Non credettero tutti e due all'inganno, tuttavia tutti e due furono travolti dal peccato e caddero nella rete del demonio.

Se qualcuno si meraviglia che la natura umana non si cambia per gli altri peccati, come si cambiò invece per la prevaricazione di quei due primi uomini, tanto da esser soggetta a una tale corruzione, come vediamo e sentiamo, che la conduce alla morte; da essere combattuta da tanti e tanto tra sé contrari affetti, come non fu certo nel paradiso prima del peccato, sia pure in un corpo animale; se qualcuno dunque si meraviglia di ciò, ripeto, non deve credere che la colpa fu lieve e di poca importanza, riducendosi a un morso, non cattivo o nocivo, ma proibito.

É escluso infatti che Dio avesse piantato qualche germe nocivo in quel luogo di delizie, ma egli con quel precetto voleva imporre l'obbedienza, virtù che nella creatura ragionevole è quasi la madre e la custode di ogni altra virtù: la creatura ragionevole infatti è strutturata in modo tale che le è utile essere suddita, e le è pericoloso compiere la volontà propria e non quella di colui che l'ha creata.

E, posto che non mangiare di un solo genere di cibo là dove c'era tanta abbondanza era un precetto tanto semplice da conservare e tanto breve da ritenere a mente - e per di più quando nessuna cupidigia resisteva alla volontà, come si verificò poi a pena della trasgressione - la sua violazione fu tanto più ingiusta, quanto più facile ne era l'osservanza.

Agostino, La città di Dio, 14,11-12

12. - La perdita degli abiti celesti

E ne diede anche al suo uomo; e mangiarono, e gli occhi di entrambi si aprirono e conobbero che erano nudi ( Gen 3,6-7 ).

Di qui sorge per noi un grave problema: quello appunto che dianzi proponevo alla vostra carità.

Infatti qualcuno potrebbe giustamente domandare quale virtù avesse quest'albero, il cui nutrimento aprì gli occhi di costoro e il motivo per il quale si chiamasse « albero della scienza del bene e del male ».

Se lo desiderate, fatevi avanti; voglio, infatti, discutere un po' con voi anche a tal proposito, onde ammaestrare la vostra carità: infatti, se volessimo rettamente intendere le cose dette nella divina Scrittura, nessuna di esse ci apparirebbe difficile.

Orbene, non per aver mangiato di quell'albero si aprirono i loro occhi ( anche prima essi ci vedevano ), ma per il fatto che quell'azione era occasione di disobbedienza e di prevaricazione del mandato stabilito da Dio.

Perciò, successivamente, essi furono spogliati della gloria che li circondava, in quanto resisi indegni d'un tale onore.

Donde la Scrittura, com'è suo costume, prosegue: « Mangiarono e i loro occhi si aprirono e conobbero che erano nudi ».

Spogliati, a causa della trasgressione del comando, dell'abito dato dall'alto, si resero conto della loro nudità fisica, in maniera tale che, attraverso la vergogna che li assalì, conobbero con certezza la gravità della rovina nella quale la disobbedienza al comando del Signore li aveva scaraventati.

Prima, infatti, essi godevano di una grande libertà e non erano consapevoli di essere nudi; né, in realtà, lo erano, dal momento che la gloria celeste, alla maniera di un abito, li rivestiva assai degnamente.

Dopo aver mangiato di quell'albero, però, cioè a seguito della loro disobbedienza, si ridussero in una condizione talmente miserabile che, non sopportando la vergogna, si cercarono un rivestimento.

La loro prevaricazione, infatti, non appena si fu verificata, li spogliò di quella nuova e mirabile veste, cioè della gloria e della benevolenza celeste, della quale erano rivestiti, rendendoli consapevoli della loro nudità e circondandoli di grande vergogna.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 16

13. - L'accusa della coscienza

E udirono la voce del Signore Iddio che verso sera passeggiava nel paradiso, e si nascosero ( Gen 3,8 ).

Che cosa dici? Iddio passeggia?

Gli attribuiamo dei piedi e non pensiamo nulla di sublime intorno a lui?

Iddio non passeggia: non sia mai!

Come, infatti, potrebbe passeggiare, colui che è presente in ogni dove e riempie tutto?

Lui, che ha il cielo per trono e la terra per sgabello ( Is 66,1 ), potrebbe forse esser contenuto nel giardino del paradiso?

Quale persona sensata potrebbe affermare una cosa del genere?

Che cosa significa, allora, che « udirono la voce del Signore Iddio che camminava nel giardino verso sera »?

Egli volle dare loro una tale sensazione, onde gettarli nell'angoscia: ciò che, appunto, avvenne.

Sconvolti da una simile impressione, come se Dio si trovasse accanto a loro, tentarono di nascondersi.

Subito, infatti, non appena il peccato ebbe fatto la sua comparsa, e con esso la disobbedienza, li assalirono il rimorso e la vergogna.

In effetti, il giudice incorruttibile, la coscienza, insorgendo contro l'uomo, lo richiamava a gran voce, accusandolo e quasi scrivendo davanti ai suoi occhi la gravità del peccato.

Per questo il Signore, nella sua bontà, fin dal principio, nel plasmare l'uomo, introdusse in lui la coscienza: questa perpetua accusatrice che mai può ingannarsi né ingannare.

E quand'anche taluno, commesso un peccato e perpetrata un'azione deprecabile, si nascondesse a tutti gli uomini, non potrebbe tuttavia sottrarsi all'accusa della coscienza: ovunque egli andasse, la porterebbe sempre dentro di sé a turbarlo, a straziarlo, a flagellarlo senza posa.

Anche a casa, nel foro, in compagnia, a tavola, nel sonno e quando si svegliasse, essa lo assalirebbe, chiedendogli ragione delle sue cattive azioni e ponendogliene davanti agli occhi l'enormità e la pena che ne seguirebbe, come un ottimo medico che non cessi di mettere in opera i suoi rimedi.

Se poi, talvolta, la coscienza viene messa a tacere, essa non si scoraggia, ma sollecitamente si riaccinge alla sua opera.

Questa, infatti, è la funzione della coscienza: ricordarci continuamente le nostre azioni e mai consentire che ce ne dimentichiamo, ponendocele, anzi, davanti agli occhi onde renderci, così facendo, più cauti a incorrere nei medesimi peccati.

Se infatti, pur essendovi per noi un così valido aiuto da parte della coscienza, e se, pur avendo in questa una violenta accusatrice che flagella la nostra mente, ci lacera il cuore e ci sta da presso più arcignamente di qualsivoglia carnefice, ciò nondimeno, nonostante tutto questo, il più delle volte noi non la spuntiamo sulla nostra indolenza; che cosa mai non arriveremmo a commettere, nell'istante stesso in cui venissimo privati dell'aiuto di tale coscienza?

Perciò il nostro progenitore, come avvertì la sensazione della presenza del Signore accanto a sé, si nascose.

Per quale motivo, dimmi un po'?

Perché constatava la presenza del suo severo accusatore: la coscienza.

L'uomo, infatti, non aveva nessun altro giudice o testimone dei suoi peccati: l'unico, appunto, era quello ch'egli recava ovunque dentro di sé.

Tuttavia, oltre al rimorso della coscienza, anche la privazione di quella gloria che prima li ricopriva come un fulgido rivestimento, insegnava loro, attraverso la stessa nudità, la gravità del peccato commesso.

Ed è per questo, appunto, che, circondati dalla vergogna seguita a quel grave peccato, essi tentarono di nascondersi.

Infatti, dice la Scrittura, udirono la voce del Signore Iddio che passeggiava nel giardino verso sera, e si nascosero sia Adamo, che sua moglie dalla vista del Signore Iddio nel mezzo del paradiso ( Gen 3,8 ).

Nulla è peggiore del peccato, o diletto.

Infatti, una volta ch'esso abbia fatto la sua comparsa, non soltanto ci riempie di vergogna, ma rende insensati anche coloro che prima si erano mostrati assai intelligenti e saggi.

Considera quanto agisca stoltamente colui il quale, ricco dapprima di tanta sapienza, ci dimostrava, con le sue medesime azioni e profezie, la sapienza di cui era dotato.

Udita la voce del Signore Iddio che passeggiava nel giardino verso sera, si nascose, tanto lui quanto sua moglie, dalla vista del Signore Iddio nel mezzo degli alberi del paradiso ( Gen 3,8 ).

Di che grande stoltezza è segno un simile comportamento: il fatto, cioè, che l'uomo tenti di nascondersi da Dio, che è presente in ogni dove, dal Creatore, che dal nulla suscitò l'esistere delle cose, che conosce ciò che è nascosto ( Sal 33,15 ), che plasmò segretamente i cuori degli uomini e comprese tutte le loro opere, che scruta i cuori e le reni ( Sal 7,10 ), che conosce anche gli stessi moti del nostro cuore ( Sal 44,22 )?

Ma non meravigliartene, o diletto.

Tale è, infatti, il costume dei peccatori: sebbene essi non possano nascondersi, tuttavia lo vogliono.

Sappi che essi fecero questo, non sopportando la vergogna della quale si erano ricoperti dopo il peccato, ormai spogli della gloria incorruttibile e considera un po' il luogo dove si nascondono: nel mezzo del paradiso.

Infatti, allo stesso modo come taluni servitori, ingrati e meritevoli d'esser bastonati, non potendo sfuggire al loro padrone, sono soliti darsela a gambe di qua e di là, sconvolti dalla paura; non diversamente anche costoro, non trovando rifugio alcuno, si mettono a correre tutt'intorno nella loro stessa dimora, il paradiso.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 17

14. - Le doglie del parto sono per la donna castigo e fonte di grazia

E Dio disse alla donna: Moltiplicherò grandemente le tue sofferenze e quelle della tua gravidanza.

Con travaglio partorirai i figli ( Gen 3,16 ).

Considera la bontà del Signore, quanta mitezza egli manifesti dopo una disobbedienza così grave.

« Moltiplicherò grandemente le tue sofferenze ».

Io volevo, disse il Signore, che tu vivessi senza sofferenza né dolore, libera da ogni afflizione e tristezza; che tu fossi ripiena di ogni soddisfazione e, quantunque provvista d'un corpo, non risentissi di alcuna sensazione inerente alla dimensione fisica.

Ma siccome non ti sei comportata come si conveniva a una prosperità sì grande, ma la ricchezza dei beni, anzi, ti ha reso l'animo così ingrato; per questo motivo ti impongo un freno affinché, condannandoti a tristezze e gemiti, tu non sia più recalcitrante.

« Moltiplicherò grandemente le tue sofferenze e quelle della tua gravidanza. Con travaglio partorirai i figli ».

Farò in modo, decretò Iddio, che tu cominci dal dolore una cosa quanto mai lieta come la generazione dei figli, affinché, attraverso i dolori di ciascun periodo, e le pene di ciascun parto, tu venga perpetuamente ammonita circa l'enorme gravità del tuo peccato e della tua disobbedienza e perché altresì, nonostante il trascorrere del tempo, tu non dimentichi quanto è accaduto, ma ti renda conto che proprio il tuo tradimento è stato la causa di tutto ciò.

« Perciò moltiplicherò grandemente le tue sofferenze e quelle della tua gravidanza. Con travaglio partorirai i figli ».

Qui intende il Signore significare le sofferenze delle partorienti e quell'enorme dolore ch'esse debbono sopportare: il recare, appunto, addosso, per tanti mesi, il figlio, come un gravoso fardello e il sentire, una per una, le pene che ne derivano, la distorsione delle membra e quegli intollerabili dolori che conosce soltanto chi li ha provati.

Ciò nondimeno, nella sua bontà, Dio ha mescolato, insieme con le sofferenze, conforti talmente grandi che il gaudio che si prova dopo la nascita di un fanciullo è pari all'intensità dei dolori che sconquassano il ventre per tanti mesi.

Infatti le donne sottoposte a un travaglio così grande e sconvolte da tante pene, fin quasi a disperare della loro stessa vita, dopo aver partorito ed essersi felicemente liberate dei dolori, ancora una volta, quasi dimentiche d'ogni sofferenza, si mettono a generare altri figli.

Così ha disposto il buon Dio, onde garantire la conservazione dell'umana specie.

Sempre, infatti, la speranza dei beni futuri fa in modo che i mali presenti si sopportino più facilmente.

La medesima cosa taluno potrebbe averla osservata nei mercanti, i quali attraversano estesissimi mari, affrontano naufragi e pirati e, nonostante gl'innumerevoli pericoli dai quali la loro speranza venga frustrata, tuttavia non desistono, ma nuovamente si accingono alle medesime imprese.

Ciò si può affermare anche a riguardo degli agricoltori: anch'essi, infatti, dopo aver diligentemente arato la terra e avendovi poi gettato abbondante semenza, sovente, a cagione della siccità o delle piogge troppo copiose o persino della ruggine che intacca le messi, depongono ogni speranza.

Eppure non si scoraggiano; nuovamente, anzi, quando sopravviene la stagione, ricominciano i lavori agricoli.

E ciò si verifica, d'altronde, in qualsivoglia sorta d'attività o di situazione … tanto grande è il piacere e la letizia mescolati da Dio insieme con gli accadimenti tristi.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 17

15. - La sottomissione della donna

Verso il tuo marito si rivolgerà il tuo desiderio, ed egli dominerà su di te ( Gen 3,16 ).

Come per giustificarsi, il buon Dio soggiunge tali cose.

Io, dice, in principio ti ho creato pari nell'onore, rispetto all'uomo, e partecipe in tutto della sua medesima dignità; come a lui, d'altronde, così anche a te ho concesso il principato su tutte le cose.

Ma per il fatto che hai abusato di tale onore, ti sottometto all'uomo: « Verso il tuo marito si rivolgerà il tuo desiderio, ed egli dominerà su di te ».

Dal momento che, avendo abbandonato colui al quale eri eguale nella dignità e della cui natura eri partecipe e per il quale eri stata creata, hai voluto avere familiarità con quella cattiva bestia del serpente, accettando così il suo consiglio; ti sottometto perciò all'uomo e lo promuovo come tuo signore, perché tu riconosca la sua autorità.

Non avendo saputo regnare, impara almeno a obbedire.

« Verso il tuo marito si rivolgerà il tuo desiderio, egli dominerà su di te ».

Meglio è che tu ti sottometta a lui ed egli divenga il tuo padrone, piuttosto che, vivendo libera e indipendente, tu non precipiti in basso.

Anche il cavallo, infatti, è più utile che sia retto dal freno e proceda ordinatamente, piuttosto che, senza di quello, precipiti nei burroni.

Pertanto, considerando ciò che è bene per te, voglio che tu ti rivolga a lui: lo seguirai come il corpo tiene dietro al capo e riconoscerai docilmente il suo dominio.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 17

16. - La maledizione sopra la terra

Dio disse: quando ti ho messo in questo mondo, volevo che tu vivessi senza dolori, fatiche, affanni e sudore; che godessi d'ogni felicità e non fossi soggetto alle necessità corporali, ma, alieno da tutte queste cose, ti trovassi, anzi, in una assoluta libertà.

Però, dal momento che una condizione così sicura non ha ben fruttato per te, maledirò pertanto anche la terra, in maniera che, senza la semina e l'aratura, essa non produca, come prima, i suoi frutti.

Ti procurerò, ad ogni modo, anche molti travagli, molestie, affanni, dolori e fatiche perpetue.

Farò, anzi, in modo che nulla tu possa compiere senza sudori, affinché, attraverso cotali esperienze, tu sia costantemente ammaestrato ad agire con modestia e a conoscere a fondo la tua natura.

Né ciò accadrà per un tempo limitato e breve, ma durerà per tutta la vita: infatti col sudore del tuo volto mangerai pane fino al tuo ritorno alla terra.

Poiché da essa fosti tratto. Polvere sei tu e alla polvere ritornerai ( Gen 3,19 ).

Sopporterai queste cose fino al termine della tua vita e fino a che non ritorni in quella materia dalla quale sei stato formato.

Infatti, quantunque io ti abbia donato un corpo a causa della mia bontà, nondimeno questo stesso corpo è fatto di terra e alla terra ritornerà.

Infatti « sei polvere e alla polvere ritornerai ».

In realtà, affinché non si verificassero queste cose, avevo detto: Non mangiate di quest'albero: infatti il giorno in cui ne mangerete, morirete ( Gen 2,17 ).

Io non volevo questo, infatti; ma dal momento che, per quanto riguarda me, nessuna delle cose che mi competono viene mai trasgredita, non attribuire la colpa a qualcun altro: ascrivila, invece, interamente alla tua scelleratezza.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 17

17. - Le spine, simbolo della colpa

Senza spine si innalzava allora la rosa tra i fiori della terra; senza falsità fioriva il più bello dei fiori.

Ma poi essa circondò la grazia sua con la siepe delle spine, quasi a immagine della vita umana, perché il dolce piacere delle sue azioni si tramuta spesso in pungente dolore per l'aculeo delle cure.

Lo stupendo impulso della nostra vita è infatti circondato come da un muro, da una siepe di preoccupazioni tormentose, tanto che la tristezza è unita alla gioia.

Anche se qualcuno può rallegrarsi per il dono prezioso della ragione o per i successi di una vita felice, deve giustamente ricordarsi della colpa, per la quale, a giusta punizione, le spine si sono infitte nel nostro spirito e gli aculei nel nostro cuore, dopo che noi fiorimmo un giorno nell'incanto del paradiso.

Tu puoi ben splendere in un chiaro fulgore di gloria, o uomo, per l'altezza del tuo potere o per sfolgorio di virtù: sempre hai vicino la spina, sempre ti sta al fianco l'aculeo.

Guarda continuamente ciò che hai sotto di te!

Tu fiorisci sulle spine, e la tua leggiadria non dura a lungo: breve è il corso, e passato il fiore dell'età ognuno marcisce.

Ambrogio, Esamerone, 3,48

18. - La paga del peccato

Noi, che conosciamo l'origine dell'uomo, stabiliamo con audacia che la morte non deriva all'uomo per natura, ma per una colpa, neppur essa naturale: infatti, se egli non avesse peccato, non sarebbe mai morto.

Non è dunque naturale ciò che avviene volontariamente, per libera determinazione, e non necessariamente, in forza della propria intima struttura.

Ne consegue che, pur essendo vari i generi di morte come sono varie le cause che la provocano, nessuno di loro è tanto lieve, da non imporsi con violenza.

O che? La morte strappa e spezza un'unione tanto intima di anima e corpo, una così profonda fusione di sostanze affratellate.

E ciò, anche se qualcuno esalasse lo spirito per la gioia, come lo spartano Chilone, mentre abbracciava suo figlio dopo la vittoria ad Olimpia; oppure per la gloria, come l'ateniese Clidemo, mentre veniva coronato d'oro per la bellezza del suo stile storico; oppure nel sonno, come per Platone; o ridendo, come Publio Crasso: è molto più violento questo genere di morte, che devasta i beni posseduti, che caccia l'anima dalle sue comodità, che porta alla fine proprio quando la vita è più gioconda: nell'esultanza, nell'onore, nella pace, nel piacere.

É una violenza simile a quella che colse le navi greche non lontano dagli scogli cafarei, non per la prepotenza dei turbini o lo squasso dei marosi, ma mentre spirava un venticello, il viaggio procedeva sereno e i marinai si rallegravano: per un improvviso urto nella chiglia della nave perdettero ogni speranza.

Non è diverso il naufragio della vita, anche nel caso di una morte tranquilla.

Non c'è differenza se la nave del corpo sprofonda integra o sconquassata, quando il viaggio dell'anima giunge alla fine.

Tertulliano, L`anima, 52

19. - Fatica e dolore fuori del paradiso terrestre

Al fine di evitare che l'uomo, per l'autorità concessagli e per la sua libertà di avvicinarsi a Dio, nutrisse pensieri di superbia e si inorgoglisse come se non avesse padrone, e per evitare che peccasse oltrepassando i suoi limiti e, compiacente di sé, concepisse pensieri d'orgoglio contro Dio; per evitare tutto ciò, gli fu data da Dio una legge, perché così egli riconoscesse che aveva per Signore il Signore di tutte le cose.

Dio gli impose certi limiti: se avesse osservato il comando di Dio sarebbe rimasto per sempre quello che era, cioè immortale; ma se non l'avesse osservato, sarebbe diventato mortale, si sarebbe dissolto nella terra dalla quale era stata tratta e plasmata la sua carne.

Ed ecco l'ordine divino: Di tutti gli alberi che sono dentro il Giardino tu potrai mangiare i frutti; solo dell'albero da cui viene la conoscenza del bene e del male, voi non ne mangerete, perché il giorno in cui ne mangiaste, certamente morireste ( Gen 2,16-17 ).

L'uomo non osservò quest'ordine, ma disobbedì a Dio … e Dio lo cacciò lontano dal suo volto, lo allontanò e lo fece abitare su una strada presso il Giardino, poiché il Giardino non può accogliere peccatori.

Espulsi dal Giardino, Adamo e la sua donna, Eva, caddero in molte miserie; così nella tristezza, nella fatica e tra lamenti passarono la loro vita su questo mondo.

Sotto i raggi cocenti del sole l'uomo lavorava la terra, ma questa gli produceva spine e rovi, castigo del peccato.

Si compì allora anche quest'altro passo della Scrittura: Adamo conobbe la sua donna; ella concepì e diede alla luce Caino; dopo di lui partorì Abele ( Gen 4,1-2 ).

Ma l'angelo ribelle, che già aveva spinto l'uomo alla disobbedienza, che aveva fatto di lui un peccatore e che aveva ottenuto che fosse cacciato dal Giardino, non soddisfatto del primo male ne pensò un secondo a danno dei due fratelli.

Riempì Caino del suo spirito e ne fece un fratricida: così Abele morì assassinato dal fratello - presagio che in futuro alcuni sarebbero stati perseguitati, afflitti e messi a morte, e che i malvagi avrebbero tormentato e ucciso i giusti -.

L'ira di Dio scese pesantemente su Caino - che fu maledetto - e avvenne che tutta la stirpe da lui originata, a mano a mano che i suoi discendenti si succedevano, fu simile al suo capostipite …

La malvagità si diffuse enormemente, raggiunse e invase tutte le stirpi degli uomini, al punto che tra loro rimase ben poco seme di giustizia.

Ireneo di Lione, Dimostrazione della predicazione apostolica, 15-18

20. - La partecipazione degli animali al castigo

E disse il Signore Iddio: « Farò scomparire dalla faccia della terra l'uomo che creai, dall'uomo fino all'animale » ( Gen 6,7 ).

Ma qualcuno potrebbe forse obiettare: « Perché mai, dal momento che è stato l'uomo a cadere nel male, anche gli animali subiscono il medesimo castigo? »

D'altronde, rispondiamo, forse che gli animali sono stati creati per loro stessi?

Per l'uomo sono stati fatti.

Andatosene costui, chi mai si sarebbe servito di loro?

Perciò essi subiscono codesto comune castigo: affinché, cioè, apprendano la gravità dell'indignazione.

E così come, fin dal principio, avendo il primo uomo peccato, la terra ricevette la maledizione; così anche adesso, dovendo l'uomo scomparire, gli animali stessi divengono suoi compagni di sventura.

Allo stesso modo come, infatti, quando l'uomo è gradito a Dio, anche la creazione diviene partecipe dell'umana felicità ( come dice Paolo: Poiché anche il creato sarà liberato dalla servitù della corruzione per partecipare alla libertà della gloria dei figli di Dio [ Rm 8,21 ] ); non diversamente anche adesso, essendo l'uomo meritevole di punizione, a causa della moltitudine dei peccati, ed essendo degno d'essere abbandonato all'universale perdizione, anche i giumenti, i rettili, i volatili del cielo muoiono insieme, in quel diluvio che stava per travolgere il mondo intero.

O ancora, come quando in una casa il direttore della servitù incorre nell'indignazione del padrone e tutti i servitori, per ciò stesso, sono soliti dolersi insieme con lui; parimenti anche qui, come se gli uomini morissero nella loro casa, tutti coloro che si trovavano sotto lo stesso tetto e sottostavano al suo dominio, era necessario che incorressero nel medesimo castigo.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 22

21. - Il mutamento delle creature che sono a servizio dell'uomo

Come gli uomini non hanno perseverato nell'osservanza dei comandamenti di Dio e non hanno gustato solo ciò che loro giovava, secondo l'ordine stabilito dal loro benefattore, ma si sono fatti vani, così anche le creature che servono a sostenerlo nella vita si sono mutate da utili in dannose.

Il vento, per esempio, non solo rinfresca, ma anche uccide.

L'estate non solo riscalda, ma anche tutto inaridisce.

Il fuoco non solo cuoce e soddisfa ai nostri bisogni, ma anche brucia e distrugge.

L'acqua irriga la terra, ma nelle inondazioni produce guai.

Anche gli alimenti, come l'olio, il miele, il vino e tutti gli altri, si sono così mutati.

Ed è limitata la produzione di questi alimenti, mentre illimitati sono i pericoli di morte, perché così l'uomo soggioghi le voglie sfacciate e smodate della cupidigia, i moti della libera volontà, le effusioni pervertitrici della vita dissoluta e della cattiveria indurita, che è la larga strada che conduce alla perdizione.

Stretta e difficile è la via che conduce alla vita di santità e di verità, via di amore e di osservanza della legge, che guida i passi del pellegrino alle porte della vita e della redenzione.

Così, dunque, attenendoci alla legge della temperanza, nel timore di Dio, attraverso le realtà visibili e quelle invisibili, dobbiamo distogliere dal male la volontà, sconveniente e immodesta, e muoverla al bene, e incoraggiarla all'osservanza dei comandamenti.

Dobbiamo ponderare e pensare, dire e fare ciò che è stabilito dalla volontà di Dio, come ce ne danno vera testimonianza le sacre Scritture.

E non dobbiamo abbandonarci ai desideri strani, che ci distolgono dalla vera fede.

Infatti la vera saggezza del sapiente riempie sempre di utilità vitale; rafforza con l'osservanza dei comandamenti; resta incrollabile per sempre nella dottrina spirituale.

Ma anche tutti i forti che si innalzano superbi di fronte alla sapienza di Dio vengono da essa scossi e condotti a convenire con la fede.

Fino a quando l'uomo obbedì ai comandi di Dio, obbedirono a lui anche le fiere selvagge e velenose, come a loro signore e padrone, come a Daniele, al cui comando sottostavano, o come avvenne nel caso di tre fanciulli nel forno infuocato, e come il mare a Pietro.

A tutti i santi obbedivano in tal modo le creature, secondo il volere di Dio.

Invece contro quelli che sono venuti meno ai comandi di Dio tutte le creature insorgono, sia quelle animate che quelle inanimate, e portano la terra, con tutte le sue piante ed erbe, alla perdizione: Ha reso sterile e salmastra la terra che prima era fruttuosa, dice la Scrittura, per la malvagità dei suoi abitanti ( Sal 107,34 ).

E quanti mezzi e quanta fatica hanno impiegato i santi per portare gli uomini alla rettitudine, con i comandamenti e con il Vangelo di Cristo, tanta ne hanno usata gli uomini, con la grazia di Dio, per ridurre a obbedienza gli animali, perché essi, perfino gli uccelli, servano alle loro occorrenze, e per rendere la terra utile ai loro bisogni.

Anche a sfruttare il fuoco, l'acqua e il vento al nostro servizio, ci ha condotti la sapienza di Dio.

La provvidenza del Creatore poi spinge, in modo invisibile, le bestie a obbedirci: gli uccelli, i serpenti, i vermi che vivono nel mare o sulla terra.

Infatti, se non gravasse su di loro il timore del Signore, esse tutte ci annienterebbero.

Quando poi ci danneggiano, esse eccitano contro di noi il timore di Dio, per rizzarci dalla nostra indolenza e renderci sempre pronti nel cammino della virtù.

Anche le bestie selvagge, infatti, non sono cattive per natura, come mostra il loro atteggiamento fidente di fronte agli esorcisti.

Perfino il leone, il leopardo e l'orso obbediscono all'uomo, come il bue, il cane e tutti gli altri animali che vanno e strisciano sotto il giogo.

Ma di fronte agli estranei si infuriano e attaccano gli sconosciuti, ferendoli e uccidendoli.

Mesrop armeno, Terzo discorso

22. - Ridimensionamento della sovranità dell'uomo sul regno animale

Risulta dalla Scrittura che l'uomo, in principio, sia stato detentore di un'autorità completa e assoluta sugli animali.

Infatti, è scritto, « domini sui pesci del mare e sui volatili del cielo e sulle fiere e i rettili della terra ».

D'altronde, non nego che adesso le bestie incutano a noi terrore e le temiamo: abbiamo, dunque, cessato di esercitare un cotal dominio.

Ma ciò non significa che la promessa di Dio non sia stata veritiera.

In principio, infatti, le cose non stavano così, ma gli animali temevano e veneravano l'uomo come loro signore, tremando davanti a lui.

Ma quando, a causa della disobbedienza, l'uomo perse la sua sicurezza, decadde anche il suo principato.

Che tutto fosse soggetto all'uomo, è testimoniato dalla Scrittura, quando dice: Dio condusse ad Adamo tutti gli animali e tutte le bestie, per vedere come li avrebbe chiamati ( Gen 2,19 ).

E nel vedere gli animali accanto a sé, l'uomo non si turbò; a guisa di un signore, invece, impose loro i nomi come se fossero stati suoi servitori o sudditi: « e qualunque nome Adamo avesse dato agli esseri viventi, questo sarebbe stato il loro nome »: il che rappresenta un segno di assoluto dominio.

Per questo Dio, onde mostrargli appunto la dignità della sua potenza, gli consentì l'imposizione dei nomi.

Tutto ciò indica a sufficienza che, in principio, le fiere non furono terribili per l'uomo.

Ciò nondimeno, vi è un'altra conferma, persino più sintomatica, di questo fatto.

Qual è mai codesta? Il colloquio del serpente con la donna.

Se le bestie fossero state terribili per l'uomo, infatti, la donna non sarebbe rimasta al cospetto del serpente né avrebbe parlato con tanta sicurezza con lui, ma subito, atterrita dalla sua vista, sarebbe fuggita.

Ora, invece, essa gli parla e non teme: infatti, non c'era ancora la paura.

In seguito, una volta entrato il peccato, questa dignità e questo potere disparvero.

E come suole avvenire fra i servi, laddove i più probi e onesti di loro incutono timore agli altri servitori che, avendo mancato, temono i loro compagni di servitù; non diversamente accadde anche nell'uomo.

Infatti, finché l'uomo conservò la propria dignità di fronte a Dio, l'uomo era terribile anche per le bestie; dopo la caduta, però, egli cominciò ad aver paura anche di quelli che erano stati gli ultimi suoi servitori.

Se non accetti quanto affermiamo, dimostrami allora quand'è che le bestie furono terribili per l'uomo prima del peccato.

Ma non lo puoi. Infatti, se in seguito alla caduta è sopraggiunto il timore, anche questo è un grandissimo segno della bontà di Dio.

Giacché se all'uomo, a seguito della sua trasgressione, fosse stata lasciata intatta la sua dignità, non facilmente egli si sarebbe risollevato dal suo fallo.

Se, infatti, gli uomini, obbedienti o disobbedienti che siano, godessero di uguale onore, si abituerebbero ancor più al male e non si correggerebbero facilmente.

Se ora, infatti, nonostante tanti timori, pene e sofferenze, gli uomini non si emendano; come sarebbero essi divenuti, qualora non avessero sofferto alcunché di grave per colpa dei loro delitti?

E così da Dio, che aveva per noi grande cura e provvidenza, ci è stata tolta quest'autorità.

Ma tu, o carissimo, considera anche da ciò l'ineffabile bontà di Dio.

Infatti, sebbene Adamo avesse interamente sovvertito il comando e trasgredito del tutto la legge, Dio, nel suo amore per gli uomini, superando con la sua bontà i nostri delitti, non gli tolse tutto l'onore né lo fece decadere interamente dal suo principato.

Egli sottrasse, invece, al potere dell'uomo, soltanto quegli animali che non sono molto utili alla nostra vita; quelli che soddisfano egregiamente le nostre esigenze, al contrario, li lasciò in quella servitù e nel loro stato di soggezione.

Ci lasciò, dunque, gli armenti dei buoi, per tirare l'aratro, solcare la terra, seminare; ci lasciò anche molti generi di animali da soma, per aiutarci a trasportare le merci utili; ci lasciò le greggi di pecore, perché avessimo di che vestirci; ci lasciò, insomma, molte altre razze di animali, onde fornirci d'un gran numero di cose comode.

Infatti, dal momento che, nel punire l'uomo per la sua disobbedienza, Iddio aveva detto: Col sudore della tua fronte mangerai il tuo pane ( Gen 3,19 ); affinché, tuttavia, questo sudore e questa fatica non fossero insopportabili, alleviò il loro sudore e la loro pena con la moltitudine dei giumenti, che lavorano e soffrono con noi.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 9

23. - Il peccato dei primi uomini e il peccato originale dell'umanità

Ritieni con somma certezza e non aver nessun dubbio che i primi uomini - cioè Adamo e la sua donna - furono creati buoni, retti, liberi dal peccato; forniti inoltre di libero arbitrio con il quale, se avessero voluto, avrebbero potuto per sempre servire e obbedire a Dio con umiltà e buona volontà, ma col quale avrebbero anche potuto, volendolo, liberamente peccare.

Inoltre ritieni che essi peccarono non costretti, ma per propria volontà e che per il loro peccato la natura umana si deteriorò tanto che non solo sui primi uomini ebbe potestà la morte, pena del peccato, ma il dominio della morte e del peccato passò in tutti gli altri uomini.

Ritieni con somma certezza e non aver nessun dubbio che ogni uomo, concepito nell'amplesso di uomo e donna, nasce col peccato originale ( soggiogato dall'empietà e soggetto alla morte, e che perciò nasce per sua natura figlio dell'ira, di cui dice l'Apostolo: Eravamo infatti anche noi per nostra natura figli dell'ira, come gli altri [ Ef 2,3 ] ).

E da quest'ira nessuno si libera se non per la fede nel mediatore tra Dio e gli uomini, cioè Gesù Cristo, che, concepito senza peccato, nato senza peccato e senza peccato morto, si fece per noi peccato, cioè vittima per i nostri peccati.

Nell'Antico Testamento, infatti, venivano chiamati « peccati » le vittime che si offrivano per il peccato; e in tutto ciò venne raffigurato Cristo che è l'agnello di Dio che toglie il peccato del mondo ( Gv 1,29 ).

Fulgenzio di Ruspe, Regola della vera fede, 25-27

23a. - La trasmissione del peccato originale

La macchia del peccato originale, del quale parliamo, rimane nei figli di coloro che sono stati rigenerati, finché non sia stata lavata, anche in essi, dal lavacro di rigenerazione.

Infatti il rigenerato non rigenera i figli, ma li genera; e ad essi non comunica la rigenerazione, ma trasmette il vizio della sua nascita.

E quindi tanto l'infedele colpevole, quanto il fedele assolto, non generano figli innocenti, ma colpevoli, allo stesso modo che non solo i semi dell'oleastro ma anche quelli dell'olivo non producono olivi, ma olivastri.

Per questo la prima nascita tiene l'uomo sotto il giogo della dannazione, dal quale può liberarlo solo la seconda nascita.

Lo tiene schiavo il demonio, lo libera Cristo; lo tiene colui che ingannò Eva, lo libera il figlio di Maria; lo tiene colui che giunse all'uomo seducendo la donna, lo libera colui che nacque da una donna, la quale non ebbe contatto con uomo; lo tiene colui che ha suscitato la concupiscenza nella donna, lo libera colui che, senza concupiscenza, fu concepito in una donna.

Il demonio, impadronendosi di uno, sottomise tutti; dalla sua schiavitù può liberarci soltanto quell'unico, del quale il demonio non poté impadronirsi.

Agostino, Sul peccato originale, 40

24. - La perdita del dominio della volontà sull'anima e sul corpo

Dio fu disprezzato nel suo comando, egli che aveva creato l'uomo, che lo aveva fatto a sua immagine, che lo aveva posto al di sopra di tutti gli altri animali, che lo aveva collocato nel paradiso, che gli aveva elargito l'abbondanza di ogni cosa e il benessere, che non lo aveva aggravato di precetti molteplici e difficili; ma di uno solo, assai semplice e leggero, per spingerlo all'obbedienza salutare, perché con esso ricordava di essere il signore a quelle creature cui tanto giova il libero servizio: ne seguì perciò una giusta condanna.

In seguito a una tale condanna l'uomo, che osservando il precetto sarebbe stato spirituale anche nella sua carne, si tramutò in carnale anche nella sua mente.

Nella sua superbia si era compiaciuto di sé, ed esperimentò la giustizia di Dio tanto da non essere più padrone di se stesso, ma vivendo in lotta con se stesso vive non nella libertà che aveva desiderato ma nella triste e dura schiavitù sotto colui a cui aveva acconsentito peccando.

Morto volontariamente nello spirito, muore contro sua volontà anche nel corpo; abbandonata la vita eterna, è condannato - se non liberato per grazia - alla morte eterna.

Chi è che pensa che questa condanna sia esagerata e ingiusta, certo non sa misurare quale fu la malizia del peccato, là dove era tanto facile non peccare.

Non a torto infatti si dice che l'obbedienza di Abramo fu tanto grande: gli fu comandato un atto difficilissimo: l'uccisione del figlio.

Perciò in paradiso tanto maggiore fu la disobbedienza quanto minore e nulla era la difficoltà del precetto.

E come l'obbedienza del secondo uomo è tanto più degna di lode in quanto egli si fece obbediente fino alla morte; così la disobbedienza del primo uomo è tanto più detestabile, in quanto si fece disobbediente fino alla morte.

La pena comminata alla disobbedienza era tanto grande, e il precetto imposto dal Creatore tanto facile: chi potrà mai spiegare quanto male sia non obbedire in cosa facile, se il comando viene da una tanto grande autorità e il supplizio minacciato tanto spaventoso?

Del resto, per dirla in breve, a castigo di quel peccato che cosa fu imposto alla disobbedienza se non la disobbedienza?

Quale miseria infatti è maggiore nell'uomo se non la disobbedienza in sé a se stesso, tanto da non potere ciò che vuole, egli che non volle ciò che poteva?

Infatti, anche se nel paradiso prima del peccato non poteva tutto, tuttavia non poteva ciò che non voleva; perciò egli poteva tutto quel che voleva.

Ora invece, come lo sperimentiamo nella sua stirpe e come attesta la Scrittura l'uomo è diventato simile alla vanità ( Sal 144,4 ).

Chi può contare tutto ciò che vorrebbe, e non può, dato che a lui, cioè che alla sua volontà non obbedisce il suo stesso animo, e tanto più la carne?

Contro sua voglia, infatti, il suo animo è spesso turbato, la sua carne soffre, invecchia e muore; e ciò che soffriamo contro voglia, non lo soffriremmo certo se la nostra natura obbedisse in ogni modo e in tutti i particolari alla nostra volontà!

Agostino, La città di Dio, 14,15

25. - La perdita del dominio sul corpo

Se ci si chiede quale morte Dio abbia minacciato ai primi uomini qualora avessero trasgredito il comando da lui avuto e non avessero osservato l'obbedienza - la morte dell'anima, o del corpo, o di tutto l'uomo, oppure quella che viene detta morte seconda - si deve rispondere: tutte.

La morte prima consta delle due precedenti, la morte seconda di tutte le altre.

Come infatti tutta la terra è la somma di molte terre, e la Chiesa universale è la somma di molte Chiese particolari, così la morte completa consta di tutte le morti.

La morte prima ne consta di due: una dell'anima e l'altra del corpo; si ha così la morte di tutto l'uomo, nella quale l'anima, priva di Dio e priva del corpo, sconta una pena temporale; con la morte seconda, invece, l'anima priva di Dio, ma in possesso del corpo, sconta una pena eterna.

Quando dunque Dio disse al primo uomo da lui posto nel paradiso, riferendosi al cibo proibito: In qualunque giorno ne mangerete, certamente morrete ( Gen 2,17 ), quella minaccia includeva non solo il primo aspetto della morte prima, in cui l'anima è privata di Dio, e neppure il secondo aspetto, che il corpo, cioè, è privato dell'anima; includeva non solo tutta la morte prima, in cui l'anima separata da Dio e dal corpo viene punita, ma tutto ciò che include il concetto di morte, fino all'ultima, che viene detta morte seconda, alla quale nessun'altra segue.

Appena ebbero trasgredito il precetto, subito abbandonati dalla grazia divina, si vergognarono che il loro corpo fosse nudo.

Perciò coprirono le loro vergogne con foglie di fico, che nel loro turbamento ebbero per prime sotto mano.

Avevano anche prima quelle membra, ma non se ne vergognavano: sentirono dunque un nuovo movimento di ribellione nella loro carne, quasi un immediato castigo per la loro ribellione.

La loro anima infatti, che si era empiamente rallegrata della propria libertà e aveva sdegnato di servire a Dio, si sentì ora privata del servizio del suo corpo; avendo abbandonato deliberatamente il Signore suo padrone, non riuscì a tener legato a sé il corpo suo servo; non poté più mantenere sottomessa a sé la carne, come avrebbe per sempre potuto se essa fosse rimasta sottomessa a Dio.

La carne cominciò a desiderare contro lo spirito: in questa contraddizione siamo nati noi, traendo la nostra origine dalla morte e portando nelle nostre membra e nella nostra natura viziata, per la prima prevaricazione, la lotta della morte o la sua vittoria.

Dio infatti creò l'uomo retto, perché egli è l'autore della natura, non dei vizi; ma l'uomo, per sua volontà depravato e giustamente condannato, generò uomini depravati e condannati.

Tutti noi uomini fummo in quello solo, quando tutti insieme costituimmo quello solo, quello cioè che cadde in peccato per opera della donna che da lui era stata tratta prima del peccato.

Certo, non erano già create e indipendenti le forme in cui tutti noi singoli viviamo, ma vi era già insieme la natura dalla quale tutti siamo sortiti: l'uomo nasce dall'uomo, perciò da essa, viziata per il peccato, legata nei ceppi di morte e giustamente dannata, e non da un'altra creazione.

Così, dal cattivo uso del libero arbitrio ebbe origine la serie dei guai che, da un principio viziato e quasi da una radice corrotta, conduce il genere umano a una catena di miserie, fino all'abisso della morte seconda che mai finirà, eccettuati solo coloro che ne sono liberati per grazia di Dio …

Ma quando il corpo, indebolito dagli anni e aggravato dalla vecchiezza, viene abbandonato dall'anima, si esperimenta allora l'altra morte parlando della quale Dio, mentre puniva il peccato, disse all'uomo: Sei terra e in terra ritornerai ( Gen 3,19 ).

Queste due morti formano la morte prima, che è quella di tutto l'uomo; ad essa segue infine la morte seconda, a meno che l'uomo non ne sia liberato per grazia.

Il corpo, in effetti, che pur è di terra, non ritornerebbe alla terra se non per la sua morte, che si verifica quando viene abbandonato dalla sua vita, cioè dall'anima.

Perciò i cristiani che stanno saldi nella vera fede cattolica sono sicuri che la stessa morte del corpo non ci proviene per legge di natura - perché Dio non creò la morte per l'uomo - ma ci è stata inflitta a castigo del peccato: punendo infatti il peccato Dio disse a quell'uomo nel quale noi tutti già eravamo: « Sei terra e in terra ritornerai ».

Agostino, La città di Dio, 13,12-15

26. - La caduta dello spirito

Dio, demiurgo e re sovrano dell'universo, che sussiste al di là di ogni essere e d'ogni umana concezione, ha creato il genere umano, nella sua infinita bellezza e bontà, secondo la sua propria immagine, per mezzo del suo Verbo, il nostro Salvatore Gesù Cristo.

Attraverso la sua rassomiglianza con lui, egli l'ha reso capace di contemplarlo e di conoscere gli esseri, gli ha elargito l'idea e la conoscenza della sua propria eternità affinché, conservando questa similitudine, l'uomo non si allontani mai dal pensiero di Dio e non si distolga dalla comunità dei santi, ma, possedendo i doni di Dio e la potenza propria che gli proviene dal Verbo del Padre, egli viva, nella gioia e nell'intimità con Dio, una vita senza inquietudine e veramente beata: una vita immortale.

Infatti, non avendo nulla che gl'impedisca di conoscere il Divino, la sua purezza gli permette di contemplare incessantemente l'immagine del Padre, il Verbo di Dio, a somiglianza del quale egli è stato creato; ed egli è pieno d'ammirazione nel considerare la sua provvidenza nei confronti del mondo.

L'uomo si eleva, in tal modo, al di sopra delle cose sensibili e di ogni rappresentazione corporea, unendosi, con la potenza del suo spirito, alle realtà divine e intelligibili che sono nei cieli.

Quando, dunque, lo spirito umano non ha rapporto con il corpo e non subisce dall'esterno mescolanza veruna con le passioni corporee, ma si trova interamente in una sfera superiore, vivente con se stesso, tal quale è stato creato dal principio; allora egli trascende le cose sensibili e tutte le realtà umane per vivere in alto nei cieli e, nel contemplare il Verbo, egli vede anche il Padre del Verbo.

Questa contemplazione, poi, lo rallegra e lo rinnova nel desiderio che lo porta verso Dio.

Così il primo uomo, che si chiamava in ebraico Adamo, in principio, secondo le sante Scritture, aveva il suo spirito rivolto verso Dio, nella più candida libertà, vivendo insieme con i santi nella contemplazione degli intelligibili, di cui egli si rallegrava nel luogo che il pio Mosè ha chiamato, metaforicamente, paradiso.

La purezza dell'anima, infatti, la rende capace di contemplare Dio in se stessa come in uno specchio, secondo la parola del Signore: Beati i puri di cuore, poiché vedranno Dio ( Mt 5,8 ).

Tale, si è detto, il Demiurgo aveva creato il genere umano, e voluto che rimanesse.

Ma gli uomini, trascurando le realtà superiori e indolenti ad afferrarle, cercarono piuttosto quelle che erano più prossime a loro.

Ora, ciò che è più vicino è il corpo e i suoi sensi: anch'essi distolgono lo spirito dell'uomo dagli intelligibili e si mettono a considerare se stessi.

Nel fare ciò, si attaccano ai loro corpi e alle altre cose sensibili e giungono a desiderare se stessi, preferendo il loro proprio bene alla contemplazione delle realtà divine.

In tal modo essi, rifiutando di allontanarsi dalle gioie immediate, imprigionarono la loro anima nelle voluttà fisiche che la lasciarono turbata e macchiata da tutti i generi di passioni.

Essi, infatti, avevano completamente dimenticato il potere ch'essi in principio avevano ricevuto da Dio.

Si può vedere che tutto ciò è vero, da quanto le sante Scritture ci riferiscono riguardo al primo uomo.

In effetti, anche mentre egli aveva il suo spirito rivolto a Dio e alla sua contemplazione, egli si distraeva nella contemplazione del corpo.

Ma quando, dietro il consiglio del serpente, egli si allontanò dal pensiero di Dio e si mise a considerare se stesso, allora essi furono presi dalle passioni del corpo e conobbero di essere nudi ( Gen 3,7 ) e questa conoscenza li riempì di vergogna.

Essi, poi, si resero conto di essere nudi non perché non avessero vestiti, ma in quanto erano stati spogliati della contemplazione di Dio e avevano rivolto il loro pensiero in una direzione opposta.

Allontanandosi dalla considerazione e dal desiderio dell'Uno e dell'Essere, cioè di Dio, essi furono travolti dalla diversità e molteplicità delle passioni corporee.

Poi, come accade solitamente, presi da questi desideri singoli e molteplici, essi cominciarono a tenersi abitualmente rivolti verso di quelli, al punto da temere di perderli.

Donde nacquero nell'anima le paure, i timori, le voluttà, il pensiero delle cose mortali.

Non volendo rinunciare ai suoi desideri, essa teme la morte e la separazione dal corpo.

Rimanendo sempre preda del desiderio e non riuscendo ad attingerne l'oggetto, essa apprende l'omicidio e l'ingiustizia.

Come avvenga che essa si comporti in tal modo, conviene indicarlo per quanto possiamo.

L'anima si allontana, dunque, dalla contemplazione degli intelligibili e, abusando delle sue facoltà corporee particolari, essa mette il suo piacere nella contemplazione del corpo.

Vedendo, in tal modo, che il piacere era per essa un bene, nel suo errore essa abusò del nome di « bene », ritenendo che il piacere fosse il bene assoluto e autentico; proprio come un uomo il quale, colto da demenza, reclamasse una spada per colpire quelli che incontra, credendo che questa fosse saggezza.

Presa dal piacere, l'anima si accinge a procurarselo in tanti modi.

Per sua stessa natura, infatti, essa è mobile e, sebbene distolta dal bene, non cessa pertanto di essere in movimento.

Essa si agita, dunque, ma non più verso la virtù né per vedere Dio; portando, anzi, il suo pensiero verso ciò che non è, essa trasforma il potere che è in lei e se ne serve per rivolgersi verso i desideri che essa ha immaginato, dal momento che è stata creata indipendente.

Essa può inclinarsi verso il bene, ma anche distogliersene.

In tal modo, essa pensa a cose completamente opposte, poiché non può assolutamente cessare d'essere in movimento, essendo per natura, come ho detto, quanto mai mobile.

Atanasio, Contro i pagani, 2-4

27. - Quando l'anima si ottenebra

Come l'occhio, pur essendo il più piccolo di tutti gli organi, e anche la pupilla, che è piccolissima, è un grande vaso ( infatti essa vede contemporaneamente il cielo, gli astri, il sole, la luna, le città e le altre cose del creato ) e allo stesso modo come le cose che vengono guardate in un unico e medesimo istante, ricevono forma e immagine nella piccola pupilla dell'occhio; ebbene, non diversamente si comporta la mente nei confronti del cuore.

Quest'ultimo, infatti, è come un piccolissimo vaso; eppure lì vi sono draghi, leoni, bestie velenose, tutti i tesori dei vizi; lì si trovano anche vie aspre e scabrose, precipizi.

D'altronde, però, lì c'è anche Dio, gli angeli, la vita e il regno, la luce e gli apostoli, i tesori della grazia, tutte le cose, insomma.

Come quando, infatti, estendendosi la nebbia su tutta la terra, gli uomini non si vedono fra loro; allo stesso modo le tenebre di questo secolo sono distese su ogni creatura e su ogni natura umana dal tempo della caduta.

Circondati dal buio, sono nella notte e passano la vita in luoghi spaventosi.

E come quando in una casa c'è una grande quantità di fumo, così accade anche quando il peccato si insedia e serpeggia, con i suoi pensieri osceni, insieme all'infinita moltitudine dei demoni, nelle meditazioni del cuore.

Pseudo-Macario, Omelie spirituali, 43,7

28. - Le tenebre sono colpa e sono pena

Dio, che conosce tutto in anticipo, ha preparato per tutti una dimora conveniente: per quelli che cercano la luce della incorruttibilità e verso di essa corrono, dona benigno proprio la luce che bramano; a coloro invece che la disprezzano e che la sfuggono, quasi accecando se stessi, ha preparato l'oscurità che si addice a chi si oppone alla luce.

In questo modo egli castiga chi non resta a lui soggetto.

La soggezione a lui, invece, è un riposo eterno, mentre quelli che gli negano l'obbedienza, trovano un luogo degno della loro fuga.

Tutti i beni sono presso Dio, perciò tutti coloro che fuggono da Dio si privano di tutti i beni, e cadranno sotto il giusto giudizio divino.

Chi fugge la pace, è giusto che rimanga nel travaglio, e chi fugge la luce, è giusto che abiti nelle tenebre.

Come avviene per questa luce corporea, che chi la fugge si consegna da se stesso alle tenebre, e perciò, se è privo di luce, se abita nelle tenebre la colpa è sua, e non della luce, così chi fugge la luce eterna di Dio che contiene in sé tutti i beni, se si trova nelle tenebre, privo di tutti i beni, la colpa è sua, perché da sé ha scelto una tale dimora.

Ireneo di Lione, Contro le eresie, 4,39.4

29. - Vantaggio che deriva per l'uomo dal ricordo del paradiso

E il Signore Iddio cacciò via Adamo e lo pose di fronte al paradiso di delizie ( Gen 3,24 ).

Considera come, in ogni sua opera, il nostro comune Signore abbia occasione di manifestare la propria bontà e come, altresì, persino ogni punizione, appunto, rappresenti una dimostrazione di benignità.

Infatti, non soltanto questa era una manifestazione di bontà ( il fatto, cioè, di aver espulso l'uomo ); ma anche quello di averlo collocato di fronte al paradiso affinché, pensando quotidianamente al luogo donde era stato scacciato e in quale condizione fosse poi decaduto, l'uomo provasse un'incessante sofferenza.

Sebbene, quindi, quello fosse uno spettacolo dolorosissimo, nondimeno costituiva un'utilissima occasione affinché l'uomo, dolendosi continuamente a quella vista, divenisse più accorto e prudente onde non cadere nuovamente nei medesimi peccati.

Infatti, dal momento che tale è il costume dell'uomo: il non sapere, cioè, mentre godiamo dei beni, il modo come servircene con assennatezza; veniamo perciò emendati attraverso la loro privazione.

Soltanto allora, ammaestrati dall'esperienza, cominciamo ad accorgerci della nostra infingardaggine e pertanto, istruiti da un così grave mutamento delle cose, capiamo da quale stato siamo decaduti e di quali mali ci siamo circondati.

Se dunque Iddio comandò a colui che aveva scacciato di lì di abitare da presso al paradiso, ciò fu segno di grandissima cura; di fronte a tale spettacolo, infatti, l'uomo avrebbe ricordato ogni cosa e ne avrebbe tratto insegnamento, nell'impossibilità di ardire nuovamente, per smodata concupiscenza, a mangiare di quell'albero.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 18

30. - Perdita e riacquisto

Dio cura sempre di comportarsi così: quando vuol concederci qualche bene, ma noi ci mostriamo indegni della sua liberalità, egli ci dimostra, in tutte le circostanze, che da parte sua desiderava donare ma che noi, per la nostra stoltezza, abbiamo perso il dono che voleva farci.

Così si è comportato anche all'inizio.

Quando creò l'uomo non lo oppresse subito di fatiche, né di tribolazioni, né di dolori: non lo fece mortale; l'uomo al contrario era libero dalla tristezza, dal sudore e dalla morte.

Se Dio avesse dato all'uomo tutte queste tribolazioni come sua eredità fin dall'inizio, non avrebbe potuto destinarlo ad esse, come punizione e castigo, dopo il peccato.

E l'uomo, libero da queste miserie, splendeva più del sole.

Certo, era nudo, non aveva vestito, ma era ammantato di splendore.

Anzi, questa era la prova più grande della sua beatitudine: cioè che non abbisognava né di vestito, né di panno, né di indumento qualsiasi, ma possedeva un corpo elevato al di sopra di questi bisogni.

E non solo per questo egli era felice, ma anche perché poteva gioire nel colloquio con Dio e godere della più alta confidenza con lui.

Gli angeli tremavano davanti a Dio, i cherubini e i serafini non osavano fissarlo; l'uomo invece parlava con lui come con un amico …

Vedi dunque che allora non vi era nessuna delle caratteristiche di questa vita: non vi erano arti, non vi erano commerci, non vi erano costruzioni, né vestiti, né scuole, non vi era tetto, tavola, fatica, tribolazione e morte, e neppure tutta la schiera delle altre sofferenze.

L'ingresso era splendido, la porta della nostra vita magnifica; l'inizio portava l'uomo a una vita ancor migliore.

Tuttavia Adamo non sopportò ciò, ma, per una leggerezza indicibile, oltrepassò i limiti di quello che gli era proibito e non seppe neppure sopportare di astenersi dal frutto di un solo albero.

Tuttavia anche qui si mostrò il grande amore di Dio per gli uomini: questo è il modo divino di agire.

Quando noi perdiamo qualcosa per nostra stoltezza, egli non cessa di mettere in opera tutto, fino a quando ci riconduce ad impossessarci di doni più grandi di quelli che abbiamo perduti.

Questo avvenne anche allora: abbiamo perso il paradiso terrestre, ma abbiamo ottenuto il cielo; perciò il guadagno è stato più grande della perdita.

Tuttavia non immediatamente abbiamo ottenuto il cielo, e anche ciò fu opera della divina solerzia.

Il nemico aveva detto: Sarete come dèi ( Gen 3,5 ), e con questa speranza aveva gonfiato gli uomini, inducendoli ad aspettarsi la somiglianza divina.

Li aveva condotti fuori dalla ragione, insegnando loro ad avere una stima assolutamente esagerata della loro propria natura.

Ma Dio volle curare in modo sovrabbondante questa ferita.

Perciò egli stabilì innanzitutto che l'uomo per un certo periodo restasse sotto il dominio della morte, perché imparasse, per esperienza concreta, come era stato cattivo il consiglio del demonio, e perché, appreso in tal modo a dominare la propria anima, potesse riottenere ancora un corpo immortale.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 14

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