Obbedienza

IndiceA

Sommario

I. Obbedienza secondo la Parola.
II. Obbedienza nella primitiva esperienza ecclesiale.
III. Obbedienza evangelica acculturata.
IV. Verifica storica dell'obbedienza acculturata.
V. Criterio preferenziale fra le forme acculturate d'obbedienza.
VI. Obbedienza nella prospettiva del Vat II.
VII. Obbedienza come redenzione dell'autorità nel Vat II.
VIII. Obbedienza in acculturazione spirituale odierna.
IX. Ricapitolazione sull'Obbedienza cristiana.

I - Obbedienza secondo la Parola

Dio s'incontra con gli uomini all'interno della loro vita quotidiana; instaura la sua storia salvifica, partecipando alla loro storia terrena.

« Qual grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi? » ( Dt 4,7 ).

Un Dio, che dimora presso i figli degli uomini ( Nm 35,34 ), crea con essi dei rapporti ricchi e molteplici; intreccia con loro relazioni d'autorità - sudditanza, di comando - obbedienza, di superiorità - ossequio.

L'adesione umana ai voleri divini diventa un momento privilegiato della storia salvifica; si costituisce qual segno che è stata inaugurata una convivenza d'amore con Dio salvatore.

La comunità dei credenti acquisisce la propria liberazione in misura che sa accogliere e vivere nel colloquio continuato e nell'intimità vitale col proprio Dio; in proporzione che sa esprimere a suo riguardo amore e obbedienza.

L'obbedienza a Dio diventa possibile solo in virtù di un dono divino, in forza di una sua volontà salvifica, per una sua gratuita benevolenza.

Difatti è segno del suo amore che egli manifesti la sua volontà; che elevi la creatura a un colloquio con lui; che la renda capace di vivere secondo i suoi voleri.

Dio salva in quanto rende gli uomini coscienti della sua volontà; in quanto li costituisce capaci di obbedire al suo disegno; in quanto li educa all'interno della loro storia, così da essere a lui ossequienti; in quanto li destina a convivere nell'intimità delle sue confidenze amichevoli.

L'alleanza ha svelato l'obbedienza in questo suo volto nuovo; l'ha testimoniata qual dono carismatico offerto da Dio agli uomini; l'ha proposta quale sposalizio d'intimità fra Jahve e il suo popolo.

« E ti fidanzerò con me per sempre, ti fidanzerò con me nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell'amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà, e tu conoscerai il Signore » ( Os 2,21s ).

L'alleanza suggerisce il senso e il modo di vivere l'obbedienza.

Le creature, gratificate dell'amicizia con Dio, devono amarlo attraverso l'uniformazione ai suoi voleri; abilitate a stare con lui, devono saper « camminare al cospetto di Jahve »; chiamate alla sua intimità, devono saper intuire i suoi desideri per adempierli.

Gli uomini devono praticare l'obbedienza come una maniera di attestare che sono una cosa sola con Dio; come un modo di conoscere i pensieri segreti dell'Onnipotente e praticarli; come un'espressione di essere in intimità d'amore con il Padre celeste ( Gen 17,9; Es 19,5s; Sal 119; 2 Mac 7,1-42 ).

L'obbedienza, essendo un modo di convivere nell'intimità d'amicizia con Dio, orienta gli uomini verso una vita divina al modo di quella di Dio; li abilita a un'esistenza d'amore caritativo; li matura verso la partecipazione alle relazioni intratrinitarie divine.

S. Paolo precisava che l'obbedienza cristiana è finalizzata alla libertà dei figli di Dio; orienta a far esperimentare un vivere libero nello Spirito di Cristo in comunione d'amore col Padre ( Gal 4,31; 2 Cor 3,17 ).

L'obbedienza, nello spirito dell'alleanza, è un tendere a vivere come Dio vive.

Se la rivelazione ha reso cosciente dell'impegno d'obbedire a Dio per esperimentare e testimoniare una vita libera nell'amore divino, ha anche riconosciuto come la volontà divina nella presente esistenza per lo più si possa cogliere solo attraverso le vicende e le peripezie terrestri, mediante intermediari autoritativi umani, scrutando i segni dei tempi.

Unicamente in una futura era escatologica sarà possibile cogliere le volontà divine immediatamente in Dio.

Attualmente vi tendiamo attraverso interposti segni diffusi nel creato, mediante voleri autoritativi umani.

Al presente l'uomo, anche quando vuole essere obbediente a Dio, aderisce a delle autorità che fanno le sue veci; quando vuole uniformarsi ai desideri divini, cerca di attuare leggi formulate da uomini; quando vuole situarsi ossequiente al disegno divino, si sottomette a dei superiori terreni.

Gli stessi israeliti sentivano la necessità di una parola autoritativa che fosse umana.

Essi dicevano a Mosè: « Parla tu a noi e noi ascolteremo, ma non ci parli Dio » ( Es 20,19 ).

Anche se essi sempre, in ogni loro atteggiamento d'osservanza legale, cercavano il recondito senso del volere divino, indagavano sul modo di unirsi all'Onnipotente.

« Di tè ha detto il mio cuore: "cercate il suo volto": il tuo volto, Signore, io cerco » ( Sal 27,8).

Il popolo eletto, educato alla religiosità da scribi e farisei, si era convinto della necessità di essere ossequiente alla legge di Mosè; cercava di essere osservante delle numerose prescrizioni legali e rituali esistenti; si andava impegnando a volere quanto era inculcato dalle legittime autorità.

In questo suo lodevole uniformarsi alla legge, lentamente si abbandonò a un'imperdonabile dimenticanza: non cercava più di unirsi in amore col suo Dio attraverso la legge, ma si fermava alla materialità della prescrizione legale.

Ormai gli israeliti non cercavano più il volto di Dio, giacché si allietavano nel viso del suo rappresentante autoritativo; non esprimevano più la pretesa di conoscere il volere del Signore, in quanto bastava per essi ascoltare il dettame precettivo formulato nella torah; non cercavano più di convivere nell'intimità con l'onnipotente Jahve, in quanto ritenevano che fosse sufficiente vivere entro l'ordine sancito dall'autorità.

Al primo posto non stava più il rapporto immediato con Dio, ma l'adempimento alla lettera della legge.

Dio s'avvide che gli israeliti cercavano una sicurezza umana: « Il loro cuore non era sincero con lui /
e non erano fedeli alla sua alleanza » ( Sal 78,37).

Egli comprese che essi si sentivano ricchi fra le prescrizioni legali; si sentivano sicuri di conquistare la salvezza in virtù delle proprie opere conformi alla legge; non avevano più bisogno di supplicarlo affinché manifestasse loro il suo volere salvifico.

Gesù, attraverso la sua parola e la sua vita, ripropone l'autorità - obbedienza nello spirito d'alleanza, che egli rinnova perfezionandola.

Egli mostra come l'obbedienza debba tendere ad attuarsi qual vita intima d'amore col Padre al di là di ogni intermediario; qual convivenza con Dio e in Dio.

Tutta la sua esistenza ha avuto come unico intento di uniformarsi alla ( v. ) volontà del Padre ( Gv 8,29; Gv 16,32 ), così da sentirsi una cosa sola con lui ( Gv 10,30 ).

L'esperienza pasquale del Cristo ha manifestato non solo un'adesione al volere divino, ma anche un modo per diventare spirito risorto e così potersi introdurre nella vita divina caritativa ( Gv 10,17-18 ); in modo da poter conoscere il volere del Padre in intimità confidenziale.

La vita d'obbedienza di Cristo si offre come esemplare per ogni uomo: obbediente è chi partecipa al ( v. ) mistero pasquale del Signore per essere abilitato a convivere caritativamente col Padre, così da saper intendere i suoi voleri e viverli con ossequio d'amore.

Gesù ha riproposto entro il contesto dell'alleanza nuova non solo l'obbedienza, ma anche la missione dell'autorità.

Egli ha prescritto che ogni autorità s'impegni a specchiare realmente i voleri divini.

Ed è questo nuovo volto d'autorità che Cristo stesso ha vissuto fra gli uomini: ha voluto essere sacramento perfetto dell'autorità del Padre ( Gv 13,13; Mt 28,18 ).

Egli è stato non tanto un rappresentante al posto di Dio Padre, ma colui che mette in contatto immediatamente con quanto il Padre vuole: « Le parole che io vi dico, non le dico da me: […] io sono nel Padre e il Padre è in me » ( Gv 14,10-11 ).

Per il vangelo l'autorità non fa le veci di Dio, non lo sostituisce comandando secondo propri criteri umani sui sudditi.

Essa è chiamata a mettere in un immediato convivere il suddito con Dio nello Spirito di Cristo; « ha il compito di rendere presenti e quasi visibili Dio Padre; e il Figlio suo incarnato » ( GS 21); ha la missione di far risuonare fra gli uomini la parola di Dio; ha l'ufficio di educare i fedeli a sapersi mettere in ascolto immediato della voce del Padre.

II - Obbedienza nella primitiva esperienza ecclesiale

Gesù, nella sua vita e nel suo evangelo, ha svelato il cuore dell'obbedienza perfetta; ha indicato l'autentico senso profondo dell'obbedienza cristiana.

Egli ha ricordato come ogni osservanza è cristiana solo se tende in qualche modo ad aderire alla parola del Padre; ha precisato quale sia il criterio spirituale primario nel valutare autorità e sudditi; ha ricordato come non esista un'obbedienza evangelica, la quale non esprima carità verso il Padre.

Nella comunità ecclesiale si è cercato di indicare e di esperimentare in quale misura fosse possibile accordare lo spirito evangelico d'obbedienza con la situazione di credenti dispersi fra affari terreni, nel ginepraio di ordinamenti civili e religiosi, senza mai avere la possibilità di incontrarsi personalmente col Signore.

Se Gesù ha indicato l'autorità - obbedienza in una sua prospettiva utopica di convivenza col Padre, la chiesa ha ridimensionato l'indicazione evangelica del Signore, adattandola alle situazioni storiche vissute dal popolo credente, popolo impigliato fra le faccende di questo secolo, trattenuto lontano da un'intimità con lo Spirito.

La comunità dei credenti deve compromettersi fra le vicende terrestri; deve spingere a praticare regole e regolamenti umani; deve mostrare in che modo e in quale estensione deve essere vissuto l'insegnamento del suo Signore.

La comunità ecclesiale come ha interpretato e vissuto l'obbedienza evangelica?

Innanzitutto essa ha conservato fede all'insegnamento caritativo del Signore.

Ha accettato il dovere di tendere a vivere l'obbedienza in modo ideale come risposta alla Parola, come sottomissione alla volontà di Dio in Cristo, come partecipazione - continuazione dell'obbedienza di Cristo.

L'obbedienza rientra nella storia salvifica solo se è un modo di riallacciarsi a Dio in Cristo secondo le indicazioni della nuova alleanza; se in qualche modo è espressiva di una vita caritativa, che consiste nell'inaugurare in se stessi una compartecipazione della vita divina trinitaria.

Così pure l'autorità ecclesiale non si struttura come un ufficio, che si giustifichi in se stesso, ma qual epifania dell'autorità di Dio in Cristo; qual sacramento che pone lo stesso superiore in ascolto immediato dello Spirito; qual carisma che il Cristo usa per la salvezza degli uomini.

Autorità ed obbedienza, nella comunità ecclesiale, sono ancorate a Cristo ( 2 Ts 3,14 ), per giungere a Dio Padre ( At 6,7; Rm 1,5; 2 Ts 1,8).

Questa proposta ideale evangelica d'obbedienza, che la chiesa fedelmente inculca presso i credenti, non viene dichiarata realizzabile in virtù di un impegno personale: non si propone primariamente qual dovere morale o ascetico.

È sempre una situazione dipendente dal come uno è vivente nella vita caritativa; dal come è inserito nel Cristo integrale; dal come è partecipe del regno del Padre; dal come è pneumatizzato nell'io, così da saper comunicare con gli altri entro l'amor di Dio.

Proprio perché l'autorità - obbedienza indica la maniera di riallacciarsi e vivere immedesimandosi con il volere intimo di Dio in Cristo.

Chi mai, per proprio sforzo, sa comprendere « quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza » ( Ef 3,18-19 )?

Per conoscere i pensieri del Padre e uniformarsi ad essi è necessario essere trasformati nel proprio io e nella propria vita, così da diventare spirito al modo del Cristo risorto.

« I segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere, se non lo Spirito di Dio » ( 1 Cor 2,11 ).

Questo dono dello Spirito, che abilita ad obbedire a Dio nella propria intimità, in qual maniera viene comunicato all'animo?

Attraverso la partecipazione al mistero pasquale, che praticamente si verifica nella recezione dei sacramenti.

Già in virtù del battesimo, l'io lentamente acquista una trasformazione radicale: diventa un essere risorto; si qualifica come spirito; si uniforma alla vita divina caritativa; acquista capacità a stare in unione d'intimità col Signore.

E in misura che l'io è pneumatizzato in virtù del mistero pasquale del Signore, ha la possibilità di obbedire in sintonia coi voleri del Padre, secondo uno spirito caritativo, in unione coi desideri divini.

Il mistero pasquale del Cristo, comunicato all'anima, conferisce capacità o possibilità di attuare un'obbedienza cristiana nello spirito filiale del Signore Gesù.

In questo senso la spiritualità tradizionale ha affermato che l'obbedienza in spirito filiale al Padre è possibile al credente solo se questi è inserito nell'obbedienza del Cristo Signore verso il Padre.

Poiché il credente sulla terra non è mai completamente trasformato in senso pasquale, non è del tutto risorto, non è mai integralmente pneumatizzato, non è mai definitivamente nella carità completa, il suo obbedire è sempre fondamentalmente trattenuto fra i voleri di autorità umana.

Anche se, perché vivente nello Spirito di Cristo, deve in ogni atto obbedienziale mostrare una certa intenzione rivolta a Dio in Cristo; anche se, in ogni adesione al superiore terreno, deve saper risalire al contatto personale col Signore; anche se, nell'adempimento di regolamenti umani, deve cercare di intuire il disegno divino.

Di fatto, presso i cristiani, questo impegno d'obbedienza cristiana, in forma iniziale è stato realizzato in modalità svariate.

Possiamo indicare talune intenzioni obbedienziali, suggerite ai fedeli della chiesa primitiva dagli stessi apostoli.

Talvolta si fa dovere di risalire col pensiero e con il cuore presso il Signore Gesù, così da obbedire direttamente a lui, come al Figlio dell'Altissimo: « rendendo ogni intelligenza soggetta all'obbedienza al Cristo » ( 2 Cor 10,5 ).

Si scarta ogni autorità umana, per potersi incontrare unicamente con quella del Signore.

Altre volte si parte dal riconoscere la presenza valevole del superiore umano e dei suoi comandi.

Si accolgono con ossequio questi precetti terrestri, ma con spirito di fede si aderisce ad essi come se fossero dettati da Cristo, come se fossero precetti che Iddio usa per comunicarsi a noi, come se il volto del Signore si presentasse sotto quello del superiore terreno.

« Le donne siano sottomesse ai loro mariti come al Signore; […] schiavi, ubbidite ai vostri padroni terrestri come a Cristo » ( Ef 5,22; Ef 6,5 ).

In altre circostanze i fedeli sono resi coscienti che devono dimorare entro un'obbedienza umana ( inerente alla vita politica, sociale o familiare ), valutabile in forma critica secondo la sua portata di capacità realizzativa.

E tuttavia, anche in questa ipotesi, i cristiani sono invitati a motivare l'obbedienza per amore al Signore, per uniformarsi al suo esempio, per testimoniare socialmente come obbedisce un discepolo di Cristo.

« State soggetti ad ogni umana istituzione per amore del Signore » ( 1 Pt 2,13s ).

Accade pure che l'obbedienza venga proposta come doverosa, perché virtù sociale, che si giustifica per una sua esigenza di bene comune, di ordine pubblico, di cooperazione fra gli uomini, in ossequio alle gerarchie costituite.

Esiste assenza di rapporto intenzionale esplicito a Dio in Cristo.

Tuttavia, anche in questa ipotesi, si accetta l'obbedienza in quanto implicitamente la si ritiene virtuosa, perché oggettivamente riferibile ai doveri richiesti dall'ordine provvidenziale divino, perché Dio vuole che fra gli uomini esista un'autorità a fine di bene comune.

« Domestici, state soggetti con profondo rispetto ai vostri padroni, non solo a quelli buoni e miti, ma anche a quelli difficili […], Ciò sarà gradito davanti a Dio » ( 1 Pt 2,18s ).

A seconda delle situazioni sociali ed ecclesiali e del grado di formazione spirituale dei singoli, nella comunità ecclesiale sono state suggerite modalità differenti di praticare l'unica obbedienza cristiana evangelica.

III - Obbedienza evangelica acculturata

L'obbedienza cristiana caritativa si delinea in modalità non sempre coscientemente chiare, anche perché non s'affaccia come una realtà a sé stante, come un dono esclusivamente carismatico.

Essa è chiamata ad affacciarsi e a strutturarsi all'interno e attraverso l'esperienza umana dei rapporti sociali e culturali esistenti.

Come la parola di Dio viene comunicata mediante parole umane, come il Figlio di Dio entra a convivere fra gli uomini assumendo la carne mortale, come la volontà salvifica del Padre in Cristo si esprime attraverso la sacramentalità della chiesa, come l'amore caritativo dello Spirito si diffonde attraverso i modi umani dell'amore, così l'obbedienza caritativa in Cristo e con Cristo al Padre tra fratelli si offre qual fermento all'interno delle maniere umane d'obbedienza.

L'obbedienza caritativa cristiana è chiamata ad incarnarsi nei vari volti storici culturali dell'obbedienza umana.

Fra gli uomini si avvicendano forme varie di umanismi; si instaura una ricchezza svariata espressiva di modalità autoritative o di sudditanza; si configurano volti nuovi di rapporti sociali o gerarchici; si delinea un evolversi storico circa i modi di vivere virtuosamente nell'obbedienza.

Tutto questo è un aspetto dell'umano, che deve essere assunto dalla carità evangelica, per offrirlo redento agli uomini.

Quando i cristiani assumono lo stile culturale del tempo in riferimento ai rapporti sociali d'autorità - sudditanza e lo sanno redimere, testimoniandovi uno spirito evangelico, svolgono un carisma in servizio della chiesa.

È proprio della missione evangelizzatrice della chiesa assumere l'umanismo culturale storico, così da esprimere in esso e attraverso il medesimo la forza rinnovatrice dell'evento salvifico.

Apparirà che « la vita cristiana, e le tradizioni particolari insieme con le qualità specifiche di ciascuna comunità nazionale, illuminate dalla luce dell'evangelo, saranno assunte nell'unità cattolica » ( AG 22 ).

L'acculturazione dell'obbedienza caritativa testimonia come il Signore sia inesauribilmente ricco nella sua intimità d'amore col Padre e possa consentire alla sua chiesa di partecipare a queste sue nozze mistiche attraverso le più disparate esperienze umane.

E, insieme, consente alla chiesa di essere criticamente denunciatrice sui modi culturali di autorità - obbedienza vissuti nella società odierna, testimoniandovi profeticamente come simile esperienza culturale potrebbe e dovrebbe essere vissuta in modo evangelico.

L'acculturazione convince la chiesa di non poter sostare su una missione evangelizzatrice che sia definitiva.

Il mondo è in un continuo rinnovarsi nella sua tensione umanistica, e la chiesa è cosciente come la sua missione si snodi a tratti successivi, con paziente longanimità, aderendo realisticamente alle situazioni storiche culturali, compromettendosi fra le visioni umane per redimerle, rivivendo in continuità il mistero pasquale del Signore.

Sarebbe umanamente e cristianamente deleterio immettere la vita dei fedeli entro un ordinamento fisso, riguardante la pratica virtuosa dell'obbedienza:

sarebbe un alienarli dalla disponibilità di leggere e valutare l'esperienza spirituale in divenire;

un mortificarne la creatività culturale;

un imporre agli avvenimenti un senso precostituito;

un ridurre la realtà a senso unico;

un mostrare la spiritualità cristiana ridotta a monotonia soffocante.

Mentre la stessa virtù cristiana d'obbedienza è impegnata a saper interpretare, leggere e rinnovare la realtà concreta; a risvegliare la creatività inventiva, che suscita nuove forme di bene.

D'altronde, storicamente la pratica dell'obbedienza cristiana non è mai stata prospettata in una modalità astorica, al di fuori di un dato contesto culturale.

Essa è sempre stata un aspetto di un complesso armonizzato di valori esistente in una data epoca; un riflesso di un dato modo spirituale di vivere, imperante in una data chiesa particolare.

In via generale si tende ad assolutizzare il senso d'autorità - obbedienza come è stato comunicato durante la propria educazione adolescenziale.

Per questa tendenza ad assolutizzare, quando muta il contesto socio - culturale spirituale, si ingenerano crisi.

Si tende a pensare che sia rigettato il principio stesso d'autorità - obbedienza, e non solamente una sua forma culturale.

Anche perché la comunità ecclesiale non appare pronta e tempestiva nel testimoniare l'attuazione evangelica profetica della nuova forma d'autorità - obbedienza.

E tutto questo ingenera disorientamento spirituale.

Non di rado la disobbedienza o contestazione giovanile è un rifiuto dell'acculturazione antiquata, in cui viene presentata la virtù dell'obbedienza, più che un sottrarsi a una vita virtuosa obbediente.

I nomi delle virtù rimangono invariati, ma il loro contenuto giace in un continuo modificarsi.

Chi guarda esteriormente, ha l'impressione che la vita spirituale sia un settore terribilmente fissato una volta per sempre, agganciato entro valori dettagliatamente intramontabili.

Mentre essa è profondamente assoggettata a un divenire socio - culturale - ecclesiale.

IV - Verifica storica dell'obbedienza acculturata

Per rendere concreto e probativo il discorso sull'obbedienza acculturata è opportuno riferire qualche esemplificazione.

Secondo l'antica sapienza greca l'universo è un cosmo, ben armonizzato nelle sue parti con il tutto, strutturato con grande arte, retto e fondato su un volere divino.

L'uomo deve offrirsi obbediente, uniformandosi a quest'ordine stabile.1

Ciò che fonda l'obbedienza umana non è l'antropologia ma la cosmologia.2

La stoà, invece, partendo dall'esperienza dei limiti e dei mali esistenti nel mondo, consiglia non l'inserimento corporeo nell'unità del cosmo, ne la beata contemplazione della sua bellezza, ma la fuga dall'ambiente dei sensi e del corpo, per rifugiarsi in un mondo del tutto diverso, attraverso l'esperienza vissuta dell'apice dell'anima.

L'obbedienza si profila come ascesi dell'io per introdursi in un'atmosfera nuova, ove si unisce il bello al buono.

Per la s. scrittura il cosmo giace in uno stato imperfetto e, inoltre, decaduto a motivo del peccato dell'uomo.

L'obbedienza è prescritta non per inserire la condotta umana nell'ordine universale, ne per fuggire da esso, ma per mettere l'uomo in comunione con Dio.

E poiché la parola rivelata parla di un ascolto sia immediato che mediato del volere divino, i cristiani hanno cercato di mettersi in ossequio riverente allo Spirito di Dio in due maniere fondamentali: direttamente o mediante intermediari.

Innanzitutto, orientandosi verso la comunione immediata con Dio, taluni credenti hanno cercato di purificare il proprio io, così da renderlo atto a sentire all'unisono con lo Spirito, come nei carismatici o pentecostali ( 1 Cor 3,16; 1 Cor 6,19; LG 4 ).

Altri si sono messi alla sequela di un direttore spirituale pneumatizzato.

Come ai tempi monastici di s. Antonio abate, ove il padre spirituale non esercitava un'autorità dall'esterno, ma offriva solo testimonianza dello Spirito in lui operante.

Altri hanno costituito una fraternità in cui ci si edifica a vicenda, per riuscire insieme a cogliere e a testimoniare le ispirazioni dello Spirito; per costituire una koinonia o comunità docile ai carismi vissuti tra fratelli.

Come avvenne nella comunità apostolica ( At 4,32s ), nel cenobitismo di Pacomio o presso il programma primitivo monastico di s. Francesco d'Assisi.

Nella fraternità si cerca di trascendere l'autorità umana: e ogni membro mediante ascesi personale si impegna ad identificarsi con lo Spirito, così da rendersi « sacramento di filiazione » ( Ignazio Brianchaninov ).

S. Bonaventura ha cercato di presentare la visione dell'obbedienza secondo lo Spirito di Cristo in una strutturazione teologica.

Egli ritiene che la perfezione dell'obbedienza stia in dipendenza di soggiacenti gradi d'amore caritativo.

L'obbedienza è perfetta in quanto esprime e si immedesima con la carità.

In proporzione che l'anima è pasqualmente purificata, in misura che è trasformata nello Spirito di Cristo, secondo il grado di partecipazione alla vita divina caritativa, essa è anche nella possibilità di intuire i voleri e i desideri di Dio Padre, di elevarsi in obbedienza immediata ai suoi sentimenti e ai suoi desideri.

Una concezione spirituale fondata sull'atto di fede, il quale non tanto si raccoglie sul superiore che fa le veci del Signore, ma cerca di raggiungere direttamente il Padre mediante lo Spirito di Cristo.

Anche se in via ordinaria ciò è possibile solo attraverso il dialogo coi fratelli ( soprattutto col superiore ) e in servizio del bene della comunità.

Nella comunità ecclesiale è stata vissuta un'altra esperienza obbedienziale: quella di cercare non la comunione immediata con lo Spirito di Cristo, ma di sottomettersi « in spirito di fede ai superiori, che fanno le veci di Dio» ( PC 14 ).

Iddio, nel suo ordine provvidenziale, si rivolge agli esseri infimi mediante quelli intermedi; si avvale di persone poste in autorità per coordinare il tutto secondo il suo ordine provvidenziale; manifesta ordinariamente la sua volontà attraverso i superiori.

L'autorità diventa un ufficio; si istituzionalizza; va assumendo una configurazione molto condizionata al contesto culturale del tempo.

Nel monastero benedettino l'autorità - obbedienza si staglia sullo sfondo feudale: si struttura in modalità altamente gerarchica, ove « tutto deve essere eseguito con il consenso dell'abate » ( Regola, 49 ), poiché « si va a Dio, sulle orme di Cristo, obbedendo » all'abate ( C. Marmion ).

Per s. Ignazio da Loyola la perfezione sta nell'aderire alla maniera più completa al superiore, avendo « con lui non solo un medesimo volere e non volere », ma « sottomettendo il proprio giudizio a quello di lui ».

« Ciascuno si persuada che quelli che sono sotto l'ubbidienza debbono lasciarsi guidare e reggere dalla divina Provvidenza per mezzo dei loro superiori, come se fossero corpo morto, che per ogni verso si lascia volgere, o come un bastone da vecchio, il quale serve a chi lo tiene in ogni luogo e in qualsiasi uso ».3

Si può giungere all'obbedienza cieca: l'anima, lasciando da parte ogni considerazione prudenziale umana, con sentimenti di fede s'abbandona ai voleri del superiore ( alieno iudicio ambulare ), sapendo che in essi si palesa la volontà di Dio.

Per fede si sa che il superiore sta al posto del Signore, facendone le veci ( « en lugar de Christo » ).

Come s. Bonaventura è il teologo teorico più eminente circa l'obbedienza come adesione immediata a Dio in Cristo, così s. Tommaso lo è per l'obbedienza come adesione a Dio mediante il precetto del superiore.

Per s. Tommaso il criterio dell'obbedienza perfetta dipende dalla presenza del comando e dalla sua completa esecuzione.4

L'attenzione prima è rivolta non tanto nel far superare il precetto umano per raccogliersi sulla parola del Signore, ma piuttosto nel raffrontarsi sul modo di accogliere e di eseguire il precetto.

Questo può essere attuato in una duplice modalità di perfezione.

Innanzitutto, eseguendone il contenuto perché è comandato: non a motivo del suo aspetto prudenziale, ma per la sua forma imperativa.5

Implicitamente l'obbediente fa omaggio all'autorità in quanto prescrive date azioni.

In secondo luogo si può esprimere un animo obbediente ancora più perfetto quando il suddito si impegna ad obbedire al di là dell'ambito comune.

Quanto più uno accetta di essere estensivamente suddito, tanto più è perfetto obbediente.6

Il perfetto obbediente è disponibile a lasciarsi comandare in tutto dal superiore, non mettendo limiti alla sua competenza legittima.

La prospettiva tomista non è propriamente quella di fede, ma una considerazione teologica sull'esercizio dell'obbedienza come virtù morale.

Di conseguenza s. Tommaso richiede che il suddito proceda, anche nell'obbedienza, valutando la bontà di ciò che è comandato, assumendone una responsabilità critica, esprimendovi una presenza dignitosa personale.

« La persona, come è tenuta a procedere col proprio consiglio in ogni suo agire, cosi pure nell'atteggiamento d'obbedire ai superiori ».7

S. Tommaso facilmente intuiva che, raccogliendo l'obbedienza non sullo Spirito di Cristo ma primariamente sul comando dei superiori, si potevano ingenerare abusi: l'autorità può essere tentata di imporre l'adesione a un'inadeguata visione di valori soggiacente ai suoi comandi, di richiedere l'assolutizzazione circa proposte in se stesse contingenti, di far ritenere come volere di Dio dei precetti puramente umani, di far accettare come sacro l'ordine esistente impedendo qualsiasi sua contestazione o evoluzione.

E il suddito deve essere un collaboratore criticamente responsabile con l'autorità in promozione sia della verità che del bene comune.

S. Bernardo e s. Giovanna Francesca di Chantal ( + 1641 ) recano un ulteriore perfezionamento alla concezione etica tomista sull'obbedienza.

Per essi l'obbedire è perfetto, quando appare integrato all'interno del suo atto da un complesso di virtù, dato che l'obbedienza è destinata a completarsi fra gli altri atteggiamenti virtuosi della persona.

L'obbedienza non si configura isolatamente, ras, solo come un momento di una vita interamente virtuosa.

L'obbediente riesce ad essere veramente tale solo se nel medesimo atto obbediente esercita pietà filiale, spirito di carità, senso di sacrificio, prontezza d'adesione, avveduta docilità, sagacia operosa, umiltà paziente, ed altre qualità spirituali.

Non esiste la persona virtuosamente obbediente, ma l'obbediente è virtuoso solo se è tale in senso integrale ( principio della totalità virtuosa a dimensione personale ).

Se per s. Tommaso l'obbedienza ha rapporto con le altre virtù, soprattutto perché queste possono costituire oggetto del precetto del superiore,8 per s. Bernardo e s. Giovanna Francesca di Chantal l'obbedienza si costituisce integrandosi nell'esercizio delle altre virtù.

L'acculturazione dell'obbedienza può dipendere non unicamente dal contesto socio - politico - ecclesiale o da una propria visione teologico - spirituale, ma inconsciamente anche da predisposizioni personali degli spiritualisti, da loro stati psico - caratteriali, da modi propri di vita ascetica o da loro esperienze comunitarie.

Può essere utile fare qualche esemplificazione. S. Francesco d'Assisi all'inizio propone alla sua comunità religiosa l'osservanza evangelica della fraternità.

Dopo aver fatto un'amara esperienza di convivenza religiosa comunitaria, impone ai frati un'obbedienza prevalentemente canonica.

Egli passa dalla forma evangelica di carità alla strutturazione legalistico - ecclesiastica.

Pietro Bérulle ( + 1629 ), profondamente conscio della sua dignità cardinalizia, accoglie la concezione metafisica neoplatonica dello Pseudo -D ionigi, che prospetta una visione gerarchica dell'universo spirituale.

Secondo Bérulle le grazie divine trinitario scendono sulle anime successivamente attraverso il Cristo, la Vergine e il superiore.

E il suddito non può risalire a Dio, per ricevere da lui grazie, se non attraverso il superiore.

L'azione di Dio si delinea mediante una gradazione di unità gerarchiche.

« In tal modo Dio, che è unità, conduce tutto all'unità e per gradi distinti d'unità viene e discende fino all'uomo e l'uomo va e sale fino a Dio e giunge al godimento dell'unità suprema e originaria della divina essenza ».9

Carlo Condren ( + 1641 ) ha l'esperienza del suo essere psicastenico, della sua vita interiore tormentata, della sua esistenza psichicamente e socialmente scossa.

Partendo dal presupposto del nichilismo della creatura, propone l'obbedienza quale annientamento.

« Quando Dio ha fatto uscire da sé le creature, ha dato loro un essere fatto di nulla e così, quando ha dato loro un essere formale e visibile, l'essere reale e vero di quelle stesse cose è sempre rimasto in lui […]; ciò che infatti ora vediamo nelle cose create e nelle creature non è il loro essere vero e reale, in quanto le cose create e le creature non hanno in se stesse una loro realtà ».

Lo Spirito, « dandosi agli uomini, li annienta nella sua donazione stessa, tanto questa è santa e tanto nulla può soffrire di creato, ne nulla può tollerare all'infuori della sua purezza » ( Lettera inedita ).

E così, l'obbedienza vissuta, come rinnegamento di se stessi, è l'unico modo di avvicinarsi a Dio.

V - Criterio preferenziale fra le forme d'obbedienza

Se l'obbedienza ha avuto espressioni molteplici ( di cui ora si è fatto solo qualche breve, esempio ), se ha conosciuto un'acculturazione continua, se ha indicato modi svariati di stare in ossequio allo Spirito, se ha ritenuto di potersi mettere in imitazione di Cristo in svariate maniere, se ha manifestato una comunità ecclesiale caratterizzata in forme carismatiche differenti, si potrebbe stabilire una preferenza fra le sue forme?

Si può emettere una valutazione critica sul modo maggiormente evangelico di esprimere l'obbedienza cristiana?

Forse non è conveniente esprimere un giudizio preferenziale assoluto.

Ogni forma virtuosa d'obbedienza è stata corrispondente a un contesto socio-culturale determinato; ha voluto indicare un kairòs o grazia ecclesiale propria di una data epoca della storia salvifica; ha riflesso uno stadio spirituale particolare esperimentato dalla comunità cristiana.

Proprio per questo, quando uno sente contestare il modo con cui è stato educato o come ha vissuto l'obbedienza nella sua vita trascorsa, non deve immaginare di aver vissuto un'ascosi erronea o sprecata.

Deve ritenere di essersi comportato secondo il proprio tempo salvifico ed ecclesiale.

D'altronde, quelli stessi che oggi sono innovatori, potranno essi pure trovarsi, in età avanzata, contestati a motivo di un costume nuovo, che potrà domani inaugurarsi circa l'obbedienza.

Ciò che rimane spiritualmente essenziale è di vivere con spirito di fede - carità l'obbedienza dominante; di non arrestarsi fra le griglie della legge umana, ma risalire verso l'unione intima col Signore Gesù; di non mai ritenere che basti limitarsi ad ossequiare il volere del superiore, ma cercare di collegarsi con quello del Padre.

Se i rapporti umani con l'intermediaria autorità sono ineliminabili, cristianamente non è consentito trascurare la tensione verso un contatto diretto col Padre nello Spirito di Cristo.

Nella regola della fraternità di Taizé si legge: « Se questa regola dovesse essere considerata un risultato finale e dispensarci dalla ricerca continua del disegno di Dio, della carità del Cristo, della luce dello Spirito santo, significherebbe allora caricarsi di un fardello inutile; sarebbe meglio non averla mai scritta ».

VI - Obbedienza nella prospettiva del Vat II

L'obbedienza cristiana ha un'irrinunciabile esigenza: che l'autorità umana sia sempre più trasparente al volere divino, in modo che la stessa obbedienza dei credenti possa esprimersi e orientarsi come immediata sottomissione a Dio Padre in Cristo.

Simile prospettiva dell'autorità - obbedienza riflette l'indole escatologica di tutta la vita cristiana: ambisce essere un anticipo della vita caritativa futura; vuoi essere una partecipazione dell'autorità - obbedienza, che il Cristo Signore vive nello splendore della sua gloria ( LG 42).

Il Vat II come presenta l'autorità - obbedienza?

Sa mettere in evidenza la novità evangelica della virtù dell'obbedienza?

Il Vat II si riallaccia all'indicazione essenziale evangelica quando parla della gerarchia ecclesiale: « Nei vescovi, assistiti dai presbiteri, è presente in mezzo ai credenti il Signore Gesù Cristo, pontefice sommo » ( LG 21; CD 2 ).

La gerarchia, rendendo presente il Cristo, non fa che facilitare un'autentica obbedienza cristiana fra i fedeli, obbedienza che può così definirsi: un offrire direttamente « a Dio la piena dedizione della propria volontà come sacrificio di se stessi » ( PC 13 ).

Il Vat II, indicando una prospettiva ideale dell'autorità ecclesiale, non ha inteso negare le possibili deformazioni delle situazioni esistenziali autoritative.

Il Cristo è presente nella gerarchia, anche se i titolari di essa possono essere intermediari e rappresentanti indegni.

Il concilio si mostra consapevole dei limiti dell'umano, anche quando è rivestito di sacro.

L'autorità umana, per quanto sia nobilmente elevata, cela in se stessa la tentazione del demoniaco; si esprime talvolta nell'ambiguità di sfogare una propria bramosia di potere; nei suoi stessi gesti di donazione può coltivare la pretesa del possesso per sé; nei medesimi momenti di purificazione ascetica si può illudere sull'efficacia di un proprio giudizio inappellabile.

L'autorità, costituita per svelare lo Spirito, può magari in parte far deviare da esso; istituita per liberare gli uomini, onde siano abbandonati con fiducia nel Signore, talvolta li asservisce alle strutture terrene e alla propria persona.

Proprio per questo il Vat II raccomanda a quanti sono in autorità nella chiesa « di non estinguere lo Spirito » ( LG 12 ) e di essere coscienti che con tutta la comunità « si è sempre bisognosi di purificazione » ( LG 8; UR 4; UR 7 ).

« La chiesa pellegrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all'età presente, porta la figura fugace di questo mondo » ( LG 48 ).

Il Vat II rivolge un analogo discorso ai fedeli circa il dovere dell'obbedienza.

Ricordando come debbano vivere in ossequio rivolto immediatamente al Signore, raccomanda di preservarsi soprattutto dall'illusione di essere illuminati in modo carismatico; di non ritenersi autosufficienti nell'andare al Signore.

Nello stesso tempo li invita a ricordarsi che sono in possesso di Cristo, evitando di vivere nel servilismo verso i superiori.

La vita cristiana caritativa è essenzialmente libera, perché vita di figli di Dio, perché permeata dalla spontaneità dell'amore caritativo, perché innestata nel Cristo liberatore ( PO 15 ).

« Voi, infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà » ( Gal 5,13 ).

Il Vat II ripetutamente riconosce la vocazione del cristiano alla libertà ( LG 9; GS 39; GS 42 ), anche se poi questo cristiano si abbassa spesso in atteggiamenti di servilismo o di piaggeria verso le persone dei superiori; anche se inclina a rigettarla per paura di assumere responsabilità personali.

Talmente che appare quasi artificiosa l'attestazione del concilio, secondo la quale l'obbedienza cristiana « porta a una più matura libertà di figli di Dio » ( PO 15 ).

Il Vat II non ha la pretesa di instaurare già sulla terra un'autorità - obbedienza al modo esatto come sarà nella carità futura; non richiede che si abbia fede in un potere, così da ritenerlo specchio del tutto terso della luce dello Spirito; ne suggerisce ai fedeli di credersi capaci di intrattenersi entro i voleri divini senza bisogno di prescrizioni terrene; ne immagina che i cristiani sappiano vivere l'obbedienza con specchiata libertà di figli di Dio, viventi nella pienezza dell'amore caritativo.

Il Vat II si limita a suggerire lo spirito innovatore evangelico, che deve lentamente penetrare i rapporti d'autorità - sudditanza: vuole che in qualche modo si sappia enunciare profeticamente la loro forma futura caritativa.

Un'iniziazione cristiana di nuovi rapporti caritativi d'autorità - sudditanza, che concretamente si traduce nel compito di "servizio".

L'autorità deve snodarsi qual servizio e non come dominio: « chi vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo » ( Mt 20,26s; Rm 11,13; LG 24; LG 27; LG 32 ).

Similmente i cristiani sono obbedienti qualora, seguendo l'esempio di Cristo e fattisi conformi alla sua immagine, in tutto obbedienti alla volontà del Padre, con tutto il loro animo si consacrino alla gloria di Dio e al servizio del prossimo ( LG 41-42 ).

Concepire sia l'autorità sia l'obbedienza come un servizio di ognuno verso tutti e di tutti verso ciascuno, è un qualificare simili atteggiamenti come capacità di fare il bene in ossequio allo Spirito interiore; è un comunicare la carità nei rapporti umani, in quanto ognuno è sospinto a sacrificarsi per l'altro in imitazione del Cristo e per sua grazia: è un far germogliare l'autentica libertà nelle comunità, dato che i membri imparano a lasciarsi illuminare e vivere secondo i doni dello Spirito ( 1 Gv 2,26 ).

Il Vat II ha indicato il fermento evangelico di servizio, che deve essere introdotto e diffuso fra le esperienze umane di autorità e di obbedienza, anche se è cosciente come esso di fatto spesso sia assente presso autorità e sudditi.

Questi beni caritativi dell'autorità, dell'obbedienza, del servizio, della libertà devono di continuo essere ridonati agli uomini e, « dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, ma illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre il regno eterno e universale » ( GS 39 ).

VII - Obbedienza come redenzione dell'autorità secondo il Vat II

Gli studi di psicologia e di sociologia in modo concorde tratteggiano il potere come giacente in una radicale ambiguità, in una potenzialità morsa dal demoniaco, in un'ineliminabile tendenza alla prevaricazione.

L'autorità, anche quando viene conferita dal sacramento, rimane incline ad esorbitare dalla sua missione di servizio.

Il sacramento inizia una potenzialità; fa nascere il dovere di attuarsi progressivamente; non ne assicura l'attuazione virtuosa.

Per il sacramento, l'autorità viene conferita entro il dinamismo pasquale, con l'impegno di purificarsi sempre più dal proprio radicale egoismo; con il convincimento d'offrirsi ulteriormente alla redenzione di Cristo.

L'autorità si pone in termini dialettici.

Di essa si deve dire contemporaneamente e simultaneamente: parla a nome di Cristo e deve rendersi uniformata allo Spirito, così da sapersi esprimere a nome di Cristo; rappresenta il Signore e deve rendersi atta a dirigere a nome del Signore; è il Cristo in terra e deve diventare immagine vivente perfetta del Cristo.

L'errore è scegliere o proporre uno solo dei due elementi.

Se ci si sofferma esclusivamente sull'identità attuale con Cristo Signore, si fa un assoluto che risente di idolatria: si misconosce che lo stesso potere ecclesiale esperimenta un continuo passaggio pasquale dal vivere secondo la carne al vivere secondo lo Spirito.

Se ci si limita a considerare l'autorità come se fosse solo un impegno di conformarsi all'autorità del Cristo, si misconosce la fede, la quale fa dovere di scorgere il Cristo attualizzato nella sua chiesa ( LG 20-21; CD 2 ).

In modo corrispondente, l'ossequio del fedele di fronte all'autorità ecclesiastica si pone in un atteggiamento dialettico.

Innanzitutto non deve scandalizzarsi della possibile ambiguità latente nell'autorità, cercandovi il pretesto per sottrarsi all'obbedienza.

In raffronto alla stessa gerarchia ecclesiastica, il Signore ha lasciato il credente entro il contesto di non essere ancora definitivamente risorto in Cristo; di non essere in grado di specchiarsi sicuramente nel volere del Padre, ma di aderirvi attraverso la mediazione ecclesiale.

Il presente non è tempo di possibile unione totale col Signore, ma di passaggio pasquale verso di lui con l'intermediario dell'autorità ecclesiale.

In tal modo la stessa obbedienza caritativa del cristiano, nell'atto stesso di aderire al precetto del superiore, è tutta immersa nel divenire purificativo pasquale; è radicata sulla fede, perché non gode con chiarezza della parola del Signore; è integrata sulla speranza, perché non si sente illuminata sufficientemente dalla luce dello Spirito ( PC 14 ).10

Nello stesso tempo il fedele ha dovere di non assuefarsi a un'autorità ecclesiale situatasi nell'ambiguità: deve spronarla a convertirsi al Signore.

Anche perché la gerarchia ecclesiastica è chiamata a testimoniare nel mondo come possa e debba essere redento il potere diffuso fra le assemblee umane.

L'autorità ecclesiale, in rapporto allo stesso esercizio del potere diffuso fra gli uomini, deve saper supplicare Iddio al modo come faceva il Cristo: « Padre, per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità » ( Gv 17,19 ).

Al fedele è affidata la salvezza dell'autorità.

Con ossequio filiale e con amore caritativo deve impegnarsi a promuovere nell'assemblea ecclesiale la presenza di un'autorità quanto più corrispondente alla grandezza del Cristo.

Simile compito è insito nello stato stesso di cristiano.

Un credente è, per vocazione, uno che segue il Cristo; si uniforma a lui; diventa un'attualizzazione nel presente della missione del Signore.

Ciò comporta che il cristiano, in misura che viene redento e reso partecipe del corpo mistico del Signore, debba essere con Cristo e in Cristo un redentore.

Il cristiano è stato salvato non per sé, ma per i fratelli; non per un proprio vantaggio, ma perché diffonda la carità fra gli altri.

Per questa sua vocazione ha il compito di santificare filialmente gli stessi propri superiori.

In conclusione, secondo il Vat II il fedele assume di fronte all'autorità atteggiamenti grandemente dialettici: si mostra stabilizzato in adesione ossequiente al superiore e, nello stesso tempo, cerca di trascenderlo per riallacciarsi immediatamente al Padre nello Spirito di Cristo; riconosce l'autorità qual grazia per risalire e attuare il disegno divino e, insieme, si impegna nel promuoverla per renderla meno alienata dai voleri di Dio; ha fede che nella gerarchia è presente il Signore e, contemporaneamente, sa come il volto di Dio in Cristo sia ineffabile; si abbandona all'obbedienza come alla via per acquisire la libertà cristiana e, insieme, deve impegnarsi ad andare al di là della persona del superiore, per non cadere nel servilismo.

VIII - Obbedienza in acculturazione spirituale odierna

È compito della comunità ecclesiale dedicarsi all'evangelizzazione, non solo annunziando la parola rivelata, ma soprattutto cercando di tradurla nel linguaggio corrente, concretizzandola secondo le problematiche attuali, esprimendola secondo le culture correnti.

In particolare, circa l'autorità - obbedienza, la comunità ecclesiale ha dovere apostolico di indicare sia l'insegnamento rivelato, sia come esso è chiamato a redimere e a esprimere in forma nuova l'attuale costume vigente d'autorità - obbedienza.

Le indicazioni conciliari sull'obbedienza ecclesiale non sottraggono questa virtù dall'avventura di ulteriori progressive acculturazioni.

Il Vat II si è limitato ad offrire aspetti teologico - pastorali, che richiedono di essere tenuti presenti nelle successive svariate esperienze circa la pratica dell'obbedienza.

La comunità ecclesiale suole esprimere l'evangelizzazione attraverso parole e prassi, interpretate e vissute da due ceti dei suoi membri: laici e religiosi.

Questi offrono due modi di vita cristiana chiamati ad integrarsi fra loro e sanno insieme indicare una catechesi ecclesiale meno incompleta.

La prassi cristiana dell'autorità - obbedienza presso fedeli e religiosi viene denominata carisma ecclesiale.

Difatti la loro esperienza ha lo scopo, non solo di accogliere e tradurre nella propria esistenza l'insegnamento evangelico sull'autorità - obbedienza, ma di proclamare a tutti - credenti e non-credenti - come la comunità ecclesiale viva l'insegnamento del Signore circa l'autorità - obbedienza; come la chiesa sia credibile per la verità che professa e pratica; come sia bello e proficuo vivere secondo lo Spirito presente e operante nella chiesa.

Perciò l'autorità - obbedienza deve essere vissuta dalla gerarchia ecclesiastica, da laici e da religiosi come un servizio di chiesa, come un apostolato presso i non-credenti, come un modo pratico insostituibile di evangelizzazione.

L'autorità - obbedienza, vissuta da laici e da religiosi, è necessariamente evangelica, anche se laici e religiosi la esercitano in differenti modalità.

Il pluralismo di esperienze ecclesiali d'autorità - obbedienza ( esistenti fra le molteplici famiglie religiose o fra i disparati ceti di laici credenti ) si struttura e si armonizza come in mosaico, per meglio manifestare la ricca beltà del volto della chiesa.

Non si deve far confronto di preferenza fra queste esperienze cristiane, se non in quanto si riesca di fatto ad esprimere maggior carità; se non in quanto si sappia testimoniare una più profonda riattualizzazione della presenza del Signore fra gli uomini.

Se si volesse presentare l'obbedienza cristiana acculturata in senso moderno, come si potrebbe tratteggiarla?

Quali le sue attuali caratteristiche costanti?

Entro quali note culturali e spirituali potrebbe oggi esprimersi?

Il mondo attuale si caratterizza per l'instaurarsi di un nuovo costume: si ha il passaggio da una società unitaria, gerarchica a una pluralistica, democratica e liberale; da una comunità differenziata a quella egualitaria; dall'epoca delle competenze universali a quella della specializzazione; dal costume politico monarchico a quello degli organi di governo; da una società stabile ad una dinamica.

Se ieri gli animi si sentivano affascinati di fronte a prospettive trascendenti ultraterrene, oggi si va introducendo una mentalità spiccatamente orizzontale, che limita la colpa alla mancanza verso le esigenze sociali, circa il bene dovuto agli altri, in rapporto alla società futura da costruire.

È un "solidarismo senza Dio": superamento dell'egoismo, fondato su una motivazione sociale, che ambisce prescindere da un'obbedienza rivolta verso Dio.

Inoltre il moderno guarda il cosmo, non tanto come un ordine sacro, in cui inserirsi ed aderire, ma qual energia inesauribile nascosta, che deve usufruire e riordinare, superandone le resistenze nocive.

L'uomo è chiamato ad essere soprattutto responsabile per dominare e trasformare il mondo a proprio servizio e sapersi in esso situare come in una casa fatta su misura propria.

Data l'indicata cultura odierna, la comunità ecclesiale ha l'incarico di assumere quanto è valevole nel nuovo stile autoritativo, per redimerlo e testimoniarlo in una sua possibile forma evangelica.

L'assemblea credente, nel contesto odierno, è invitata primariamente a considerare l'autorità, più che prerogativa di una persona, qual valore comunitario che deve essere vissuto "nella" e "per" la comunità.

Dal lato cristiano si dovrà testimoniare come la comunità, un tempo gerarchizzata, oggi preferisca proporsi qual fraternità caritativa.

Attraverso lo stesso modo di esercitare l'autorità si deve saper creare un contesto ecclesiale, che predisponga e favorisca una vita caritativa fra i fedeli; che faccia affiorare il desiderio ardente di essere immersi fra rapporti interpersonali alla maniera di quelli trinitari esistenti in Dio.

Per la presenza dell'autorità i singoli devono sentirsi richiamati a una corresponsabilità comunitaria, espressiva di una ricchezza carismatica interiore; devono essere promossi a godere la grazia pentecostale in favore di un proprio sentire nello Spirito di Cristo; devono essere abilitati a una maturità spirituale, così che si auto-dirigano da sé in favore di un vivere comunitario.

Autorità quindi come servizio ad educare cristiani adulti in Cristo, come formazione e fraternità caritativa.

In particolare, quando si tratta di autorità ecclesiale da esercitarsi presso fedeli laici, essa deve consentire in questi la necessaria autonomia personale e politica.

I laici cristiani sono chiamati a far emergere dalle realtà profane, dalle problematiche vissute nel mondo, dagli affari quotidiani, dalle condizioni ordinarie della vita familiare e sociale il senso evangelico con proprie iniziative; devono testimoniare una fede riccamente responsabilizzata.

E tutto questo non è possibile, se il credente non vi testimonia un'autonomia personale, un discernimento prudenziale proprio, un apporto creativo individuale.

Non si tollera di soggiacere a un'obbedienza cristiana la quale renda l'individuo spersonalizzato, passivamente sottoposto.

L'esperienza cristiana deve saper mostrare come in pratica sia possibile intuire e aderire alla volontà del Padre, scoprire l'azione di Dio all'interno degli avvenimenti umani, ascoltare lo Spirito di Cristo fra situazioni terrestri.

In senso cristiano appare, più appropriato parlare di responsabilità personale e collettiva, più che di autonomia.

Un laico cristiano è, non tanto autonomo nel significato stretto del termine, ma corresponsabile coi fratelli di fronte al Signore nel collaborare ad instaurare il regno di Dio.

Se si qualifica come contestatore, non è per una propria indipendenza di giudizio, non è per convinzioni personali, ma per aggredire quanto impedisce l'avvento del regno.

La testimonianza d'autonomia responsabile si propone qual odierna missione ecclesiale doverosa anche presso i gruppi laici di perfezione evangelica e di apostolato.

Il loro servizio apostolico primario è costituito dall'essere comunitariamente testimoni di un'autentica vita adulta in Cristo; dal saper irradiare il senso caritativo attraverso una personalità integrata con splendore in tutti i suoi valori umani e cristiani.

Non si ingenera una deviazione individualistica, ma un affinamento del senso spirituale, giacché i laici impegnati nella perfezione evangelica si sentono spronati a diventare sempre più adulti, aperti nella solidarietà comunitaria e donati alla promozione dei fratelli.

Chi è in autorità fra essi è detto "responsabile", in quanto non si pone sopra il gruppo ma nel gruppo; ha lo scopo di stimolare la comunità a sapersi autoregolare; è impegnato nel far esperimentare una fraternità di integrazione vicendevole; è stimolo alla collaborazione comunitaria.

Il suo potere autoritativo decisionale subentra solamente ove manchi la concordia autodisciplinatrice fra i membri.

Certamente simile collaborazione è comunitariamente praticabile solo se si esprime e viene vissuta come carità fraterna, così che il gruppo diventa simile « ad una famiglia bene organizzata dove tutti si vogliono bene e tutto si rende amabile ».

L'autorità - obbedienza, quando odiernamente è vissuta come carisma presso i religiosi, quale messaggio evangelico in maniera preferenziale intende enunciare?

Quale verità vuoi testimoniare nel mondo attuale?

Data la cultura spirituale odierna, in cui si indica come esemplare chi è adulto in Cristo; in cui si ammira quegli che assume consapevolmente la responsabilità secondo lo Spirito del Signore; in cui uno si sente impegnato a testimoniare un proprio carisma ecclesiale, si delinea la necessità che la spiritualità consacrata venga vissuta secondo un nuovo stile.

Influenzato dal nuovo contesto culturale, anche il monaco o religioso ambisce presentarsi non più come il sacrificato entro un'obbedienza soffocatrice di ogni iniziativa personale; ritiene di non più offrirsi come esemplare di chi cammina sulla sola direttiva altrui.

Egli vuoi mostrare come in convento si viva un'obbedienza non limitatrice di libertà e responsabilità evangelicamente intese.

« Il suddito non sacrifica la propria libertà.

La falsa mitizzazione dell'obbedienza religiosa dovrebbe scomparire dalla letteratura ascetica.

Egli sacrifica la sua libertà al modo in cui la sacrifica ogni altra persona ( nel matrimonio, nei doveri personali, ecc. ); e la sacrifica per realizzare una vita libera a dimensione comunitaria » ( K. Rahner ).

In particolare, la comunità religiosa è chiamata a testimoniare il senso della carità come fraternità.

Superiore e sudditi si impegnano a convivere insieme per integrarsi fraternamente nella ricerca dell'autentica volontà del Padre.

Essi si correggono nelle proprie angolosità egoistiche o di sopraffazione per saper insieme comprendere ciò che Dio vuole.

Essi intendono far vedere come il vivere fraternamente riesca incantevole.

« Quanto è buono e soave abitare da fratelli insieme ( in unum )! ».

Quando esiste vera carità fraterna, Dio è presente e in maniera autentica vi comunica i suoi voleri salvifici.

Il convento, per vocazione, è la « casa della fraternità evangelica ».

IX - Ricapitolazione sull'obbedienza cristiana

In una prospettiva cristiana il credente deve accogliere l'autorità come un richiamo a riscoprire il volere divino, come una via per accedere alla comunione di intenti con Dio in Cristo, come l'invito a saper contemplare nella filigrana del comando il volto del Signore.

Per questa esigenza di fede, il cristiano dovrebbe sapersi rendere progressivamente adulto in Cristo, così da sentirsi sempre più liberalizzato dall'esigenza di avere una guida umana; dovrebbe cercare di crescere in un'autonomia spirituale di bene, così da percepire sempre più superflua l'azione autoritativa.

Per favorire nel fedele un suo abbandono verso lo Spirito interiore, il superiore - come suo atteggiamento orientativo - dovrebbe limitarsi a testimoniare personalmente come si viva secondo lo Spirito di Cristo.

In tal senso il Signore poteva asserire: « Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi » ( Gv 13,15).

S. Paolo insisteva: « Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo » ( 1 Cor 11,1; Fil 3,17; 1 Ts 1,6 ).

L'abate Poimene, a un monaco che lo consultava se doveva accettare l'ufficio di superiore presso i fratelli, rispondeva; « A nessun prezzo. Sii per essi un esempio, non un legislatore ».11

Il superiore deve essere colui che testimonia ed educa come si debba essere obbedienti a Dio, come sia doveroso vivere in spirito di adesione alla volontà del Padre, come sia preferibile lasciarsi guidare dal Signore.

Può darsi che la comunità non abbia la visione chiara circa quanto Iddio voglia, o che i sudditi non accolgano l'invito della vita esemplare testimoniata dal superiore.

In tale ipotesi è doveroso il colloquio fra superiore e sudditi, colloquio che li arricchisce entrambi.

Autorità e sudditi si intrecciano e si integrano in spirito di ascolto vicendevole per poter scoprire insieme la volontà del Padre.

Quando neppure attraverso il colloquio fraterno si sa giungere a chiarire in modo concorde il volere divino, il superiore deve dettare ciò che ritiene più opportuno per il bene spirituale dei singoli e della comunità.

Siamo innanzi a un'obbedienza, la quale testimonia la fragilità dell'animo umano, anche se impegnato a stare in ascolto dello Spirito.

Proprio perché l'obbedienza evangelica nello Spirito è una meta di perfezione, a cui ogni fedele deve tendere, ma di cui non è mai in possesso sicuro e totale.

Essa è propria del Cristo ed è condivisa da credenti in misura che la ricevono in dono dal Signore.

Ogni cristiano dovrebbe supplicare: « Signore, concedimi di poter obbedire secondo il modo del tuo spirito caritativo ».

  Autorità
  Gerarchia
  Libertà
… di Cristo Esperienza sp. Bib. II
  Esperienza sp. Bib. II,5d
  Eucaristia II
… alla volontà di Dio Discernimento IV,4
  Volontà II
… e consiglio evangelico Consigli I,1c
… e libertà di coscienza Chiesa I,5
  Libertà III
  Libertà IV,2
… e liberazione Libertà III
… e contestazione Antinomie IV
… negli istituti secolari Istituti III
… nell'islamismo Islamismo VII

S. G. B. de La Salle

( Superiori, sottomissione )

Amiamo la vita ritirata imitando Gesù che si rifugiò e visse sconosciuto in Egitto MD 6,1-3
Necessità dell'obbedienza MD 7-15
Apertura e semplicità di cuore MD 19,1-3
Con quale spirito dobbiamo ascoltare e ricevere le parole dei Superiori MD 21
Gesù si abbandona alle sofferenze e alla morte MD 24,2
Pretesti che molti adducono per non comunicarsi spesso MD 55,3
Riusciremo sempre, se agiremo per obbedienza MD 57
La sordità spirituale MD 64,1
Unione con i Confratelli MD 65,1
Chi ha rinunciato allo spirito del proprio stato, quali mezzi deve prendere per riacquistarlo? MD 68,1
Molti sono chiamati, ma pochi sono eletti a vivere in Comunità MD 72,2
Non dobbiamo aspettarci che Dio compia miracoli per farci contenti MD 73,1
Bandire il rispetto umano MD 75,1
In comunità ci sono diversi che hanno lasciato il mondo ma non ne hanno abbandonato lo spirito MD 76,1-2
Ottava dell'Immacolata Concezione MF 83,1
Santo Stefano protomartire MF 87,1
Qual'è stato il nostro comportamento verso il prossimo durante quest'anno e quali sono state le nostre colpe MF 91,1
Riflettere sulle colpe commesse durante quest'anno verso voi stessi e verso la regolarità MF 92,1-3
Circoncisione di Nostro Signore Gesù Cristo MF 93,1
Conversione di san Paolo MF 99,3
Purificazione della Vergine Maria MF 104,1
La nostra sottomissione alla Chiesa MF 106
San Mattia apostolo MF 107,2
San Gregorio Magno papa MF 109,1
San Giuseppe MF 110,1-2
San Francesco da Paola MF 113,2
Sant'Anselmo MF 115,2
San Norberto MF 132,2
Sant'Antonio di Padova MF 135,3

1 Aristotele, Libro della fisica, c. VIII
2 Aristotele, Etica a Nicomaco, VI, 7
3 S. Ignazio di Loyola, Constitutiones, p. VI, e. 1, Reg. 36
4 S. Th. II-II, q. 104, a. 4
5 S. Th. II-II, q. 104, a. 2
6 S. Th. II-II, q. 104, a. 5, ad 3
7 S. Th. II-II, q. 104, a. 1, ad 1
8 S. Th. II-II, q, 104, a. 2, ad 1
9 P. Bérulle, Discorso sullo stato e le grandezze di Gesù, § 7
10 Paolo VI, Evangelica testificatio
11 PG 65, 363