Contro Fausto manicheo

Indice

Libro XXII

20 - Perché Dio punisce sia il giusto sia il peccatore

Quanto all'ultimo esempio che Fausto ha posto, accusando i libri antichi quasi di insultare Dio perché minaccia la spada e di non risparmiarla a nessuno, né giusto né peccatore, se spiegassimo al pagano in che modo si debba intenderlo, forse egli non farebbe resistenza né al Nuovo né al Vecchio Testamento e gli piacerebbe la similitudine evangelica che invece a costoro, che vogliono essere considerati cristiani, o non è visibile perché sono ciechi o dispiace perché sono malvagi.

Certamente il supremo coltivatore della vite usa la falce in un modo per i tralci che portano frutto ( Gv 15,1 ) e in un altro per quelli che non ne portano: tuttavia non risparmia né i buoni né i cattivi, gli uni per ripulirli, gli altri per tagliarli.

Nessun uomo infatti è dotato di tanto grande giustizia che non gli sia necessaria la prova della tribolazione, al fine di perfezionare, di confermare o di saggiare la virtù: a meno che costoro non vogliano escludere dal novero dei giusti lo stesso apostolo Paolo, il quale sebbene confessi con umiltà e sincerità i suoi peccati trascorsi, tuttavia rende grazie per essere stato giustificato dalla fede in Gesù Cristo. ( 1 Tm 1,13 )

O forse lo risparmiava colui che questi sciocchi non comprendono quando dice "Non risparmierò né il giusto né il peccatore "?

Ascoltino allora lui stesso: Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un angelo di Satana incaricato di schiaffeggiarmi; a causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me ed egli mi ha detto: " Ti basta la mia grazia, poiché la virtù si perfeziona nella debolezza ". ( 2 Cor 12,7-9 )

Dunque non risparmiava neppure il giusto, per perfezionarne la virtù nella debolezza, colui che gli aveva dato un angelo di Satana che lo schiaffeggiasse: a meno che non diciate che gli fu dato dal diavolo.

Dunque il diavolo agiva perché Paolo non insuperbisse per la grandezza delle rivelazioni e la sua virtù giungesse a perfezione: ma chi potrebbe mai dire una cosa simile?

Pertanto, a consegnare quel giusto all'angelo di Satana perché venisse schiaffeggiato fu colui che, per mezzo di quel giusto, consegnava allo stesso Satana anche gli ingiusti, dei quali Paolo dice: Li ho consegnati a Satana perché imparino a non più bestemmiare. ( 1 Tm 1,20 )

Comprendete ora in che modo dall'alto egli non risparmi né il giusto né il peccatore?

O vi indignate ancora di più perché lì è stata menzionata la spada?

Una cosa infatti è essere colpiti, un'altra essere uccisi.

Come se le migliaia di martiri non fossero stati abbattuti con diversi tipi di morte, o i persecutori avessero avuto tale potere se non perché fu loro concesso dall'alto, da colui che disse: " Non risparmierò né il giusto né il peccatore "; essendo lo stesso Signore dei martiri di cui si dice: Non ha risparmiato il proprio Figlio ( Rm 8,32 ) a dire con tutta chiarezza a Pilato: Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto. ( Gv 19,11 )

Paolo stesso dice che queste violenze e persecuzioni nei confronti dei giusti sono un esempio del giudizio di Dio. ( 2 Ts 1,5 )

Affermazione che viene più ampiamente chiarita dall'apostolo Pietro, come ho ricordato sopra, quando dice: È giunto il momento in cui inizia il giudizio dalla casa di Dio; e se inizia da noi, quale sarà la fine di coloro che rifiutano di credere al Vangelo del Signore?

E se il giusto a stento si salverà, che ne sarà del peccatore e dell'empio? ( 1 Pt 4,17-18 )

Da qui si capisce in che modo non vengano risparmiati gli empi, che sono come sarmenti tagliati per essere bruciati; i giusti invece non vengono risparmiati affinché sia perfezionata la loro purificazione.

Il medesimo Pietro attesta che queste cose avvengono per volontà di colui che negli antichi libri dice: " Non risparmierò né il giusto né il peccatore ".

Dice infatti: È meglio, se così vuole lo Spirito di Dio, soffrire operando il bene che facendo il male. ( 1 Pt 3,17 )

Quando dunque per volontà dello Spirito di Dio soffrono quelli che fanno il bene, sono i giusti a non essere risparmiati; quando invece soffrono quelli che fanno il male, sono i peccatori; tuttavia ambedue le cose avvengono per volontà di colui che dice: " Non risparmierò né il giusto né il peccatore ", l'uno castigandolo come un figlio, l'altro punendolo come un empio.

21 - I Manichei calunniano il Dio dei Cattolici nel Vecchio Testamento e rifiutano la correzione che viene dal Nuovo

Ho dunque mostrato, per quanto ho potuto, che noi non adoriamo un Dio che dimora dall'eternità nelle tenebre, ma colui che è luce ( 1 Gv 1,5 ) e nel quale non vi è alcuna tenebra, e anzi in lui stesso abita la luce inaccessibile, ( 1 Tm 6,16 ) giacché lo splendore di tale luce eterna è la sua coeterna Sapienza. ( Sap 7,26 )

Neppure un Dio che si meraviglia di una luce ignota, bensì colui che creò la luce affinché esistesse e la approvò affinché permanesse.

Né uno ignaro del futuro, bensì colui che comanda il precetto e condanna il delitto, per vincolare contro la disobbedienza i presenti e intimorire con l'anticipo di una giusta vendetta coloro che verranno.

Né un Dio sprovveduto, che fa domande perché è ignorante: bensì uno che interrogando giudica.

Non uno invidioso e pauroso: bensì uno che giustamente esclude il prevaricatore da quella vita eterna che giustamente concede a chi obbedisce.

Non uno bramoso di sangue e di grasso: bensì uno che, imponendo a un popolo carnale dei sacrifici adeguati, per mezzo di alcune figure promette il sacrificio vero.

Uno geloso non per livida passione, ma per serena bontà, affinché l'anima che deve conservare la castità per l'unico Dio non si insozzi, corrotta e prostituita a molti dèi falsi.

Non uno che si infuria torbidamente di un'ira umana, bensì uno che retribuisce severamente ciò che è giusto con un diverso e divino atteggiamento, che secondo un certo uso della lingua viene chiamato ira non a motivo della brama di vendetta, ma per il vigore che c'è nel giudizio.

Non uno che fa morire migliaia di uomini per colpe lievi o per nulla commesse: bensì uno che, con esame sommamente equo, mediante le morti temporali dei mortali impone ai popoli un utile timore di sé.

Non uno che senza alcun discernimento punisce con cieca confusione i giusti e i peccatori: bensì uno che distribuisce ai giusti una salutare correzione in vista della perfezione, e ai peccatori la dovuta severità a cagione della giustizia.

Da ciò appare, o Manichei, che siete stati ingannati dai vostri sospetti, allorché mal comprendendo le nostre Scritture, o frequentandone cattivi conoscitori, credete sui cattolici cose false; e abbandonata così la sana dottrina, rivolti a favole sacrileghe, totalmente sviati ed estraniati dalla società dei santi, non volete neppure essere corretti sulla base del Nuovo Testamento, dal quale noi estraiamo cose analoghe a quelle che voi biasimate nel Vecchio.

Ne deriva che, come contro i pagani, siamo costretti a difendere entrambi i Testamenti anche contro di voi.

22 - Il dio manicheo è un'invenzione

Ma supponete che uno, del tutto carnale, sia così stolto da adorare come Dio non quello che adoriamo noi, cioè l'unico e il vero, ma quello che voi dite che noi adoriamo, quello cioè inventato dalle vostre calunnie o dai vostri sospetti: non ne adorerebbe comunque uno migliore del vostro?

Vi prego, prestate attenzione e aprite gli occhi, comunque essi siano - giacché non occorre una grande acutezza di ingegno per poter capire ciò che dico -; mi rivolgo a tutti, saggi e non saggi: udite, ascoltate, giudicate.

Quanto sarebbe stato meglio che il vostro dio avesse dimorato dall'eternità nelle tenebre, piuttosto che sommergere nelle tenebre la luce a sé coeterna ed affine!

Che avesse lodato, meravigliandosene, una nuova luce sorta a mettere in fuga le tenebre, anziché non aver potuto evitare l'irrompere delle antiche tenebre se non ottenebrando la sua propria luce!

Infelice, se fece questo perché si turbò; crudele, se lo fece senza che ci fosse pericolo.

Infatti sarebbe certo stato meglio per lui vedere la luce da sé creata e meravigliarsi che fosse buona, piuttosto che renderla malvagia dopo averla generata, dato che quella luce respinse da lui le tenebre nemiche al punto da divenirgli nemica essa stessa.

Questa è infatti la colpa che sarà imputata a quei resti da condannare nel globo: che " che concessero a se stessi di allontanarsi dalla loro precedente brillantezza naturale e divennero nemici della santa luce ".

Prima che ciò avvenisse, se dall'eternità ignoravano che ciò sarebbe loro accaduto, pativano un'eterna tenebra di ignoranza; se invece ne erano a conoscenza, un'eterna tenebra di paura.

Dunque una parte e sostanza del vostro dio dimorò dall'eternità nelle proprie tenebre, e in seguito non si meravigliò di una nuova luce, ma si imbatté in altre tenebre estranee, che da sempre aveva temuto.

Quindi se dio stesso, del quale quella era una parte, temeva che a quella sua parte sarebbe avvenuto un male così grande, ciò significa che le tenebre della paura avevano invaso anche lui; se invece ignorava che ciò sarebbe accaduto, era accecato dalle tenebre dell'ignoranza.

Ma se sapeva che ciò sarebbe accaduto a una parte di sé, e non aveva timore, le tenebre di tanta crudeltà sono peggiori di quelle dell'ignoranza o del timore; il vostro dio infatti non possedeva neanche ciò che l'Apostolo loda nella carne stessa, che voi - del tutto folli - credete essere stata creata non da Dio ma da Hyle: Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme. ( 1 Cor 12,26 )

Ma non lo accusiamo: egli lo sapeva, lo temeva, se ne doleva, ma non poteva fare nulla.

Dimorò dunque da sempre nelle tenebre della sua disgrazia; né in seguito si meravigliò di una nuova luce che da lui allontanasse le tenebre, ma sperimentò altre tenebre, che da sempre aveva temuto, con grande danno della propria luce.

Quanto sarebbe stato meglio, non dico impartire un precetto come un dio, ma ricevere un precetto come un uomo!

Sia custodendolo a suo vantaggio, sia disprezzandolo a suo danno, tuttavia in ambedue i moti dell'animo egli avrebbe fatto uso della libera volontà, anziché essere costretto da un'ineludibile necessità, e contro la sua volontà, ad ottenebrare la propria luce.

Molto meglio infatti sarebbe stato impartire un precetto alla natura umana ignorando che essa avrebbe peccato, piuttosto che, schiacciato dalla necessità, costringere a peccare la propria natura divina.

Svegliatevi, e diteci in che modo vince le tenebre uno che viene vinto dalla necessità.

Essa stava già presso di lui come il nemico maggiore, e da essa vinto e comandato egli combatté contro il nemico minore.

Quanto meglio sarebbe stato ignorare dove Adamo fosse fuggito dalla sua presenza, piuttosto che non sapere egli stesso dove fuggire, prima dalla presenza della dura e terribile necessità, poi dalla presenza di una razza diversa e avversa!

Quanto meglio invidiare alla natura umana la felicità, anziché gettare nell'infelicità la natura divina; desiderare il sangue e il grasso dei sacrifici, anziché essere immolato egli stesso agli idoli tante volte, mescolato al sangue e al grasso di ogni vittima; sconvolgersi di gelosia se quei sacrifici venivano offerti anche ad altri dèi, piuttosto che venire offerto egli stesso su tutti gli altari, a tutti i demoni, imprigionato non solo in ogni frutto, ma anche in ogni carne!

Quanto meglio sarebbe stato se, spinto dall'umana indignazione e furioso, si fosse adirato con i peccatori, sia suoi che estranei, piuttosto che essere egli stesso turbato non solo in tutti quelli che si adirano ma anche in tutti quelli che temono, insozzato in tutti quelli che peccano, punito in tutti quelli che vengono condannati, a tutti legato per quella sua parte che, innocente, egli stesso condannò a tale obbrobrio, per poter sconfiggere per mezzo di essa ciò che temeva!

Egli stesso condannato al giogo di una necessità a tal punto funesta che quella sua parte, da lui condannata, potrebbe perdonarlo se, già essendo un miserabile, fosse almeno umile!

Ora, chi può tollerare che voi biasimiate dio che si adira con i peccatori suoi ed estranei, quando il Dio che voi inventate condannerà alla fine nel globo le sue proprie membra, dopo averle costrette, costretto egli stesso, a cadere nelle fauci del peccato?

Certo, quando farà questo, come dite voi, lo farà senza ira.

Ma mi meraviglio che abbia la sfrontatezza di eseguire questa sorta di vendetta su coloro a cui piuttosto dovrebbe chiedere perdono e dire: "Vi scongiuro, perdonatemi, siete membra mie; come potrei farvi questo, se non fossi costretto dalla necessità?

Sapete anche voi che, quando vi inviai là, un nemico tremendo mi aveva attaccato: se ora vi incateno qui, è perché temo che attacchi di nuovo ".

Ormai certamente ammetterete anche che è molto meglio far perire di morte temporale migliaia di uomini per una colpa nulla o lieve, piuttosto che gettare nella voragine del peccato e condannare alla pena di un incatenamento perpetuo le proprie membra, cioè le membra di Dio, la sostanza di Dio, e dunque Dio.

Se quelle membra avessero il libero arbitrio per peccare o non peccare ( sebbene non si vede come ciò possa dirsi della sostanza di Dio, se è davvero sostanza di Dio e pertanto assolutamente immutabile: Dio infatti non può in alcun modo peccare, né negare se stesso; ( 2 Tm 2,13 ) l'uomo invece può peccare e negare Dio, ma se non vuole, non lo fa ), se dunque in queste membra del vostro dio, come nell'anima umana e razionale, ci fosse - come ho detto - il libero arbitrio della volontà per peccare o non peccare, forse sarebbero punite giustamente, a motivo di gravi crimini, con quel supplizio del globo.

Ora, però, non potete affermare che quelle particelle avevano una libera volontà, che dio stesso nella sua totalità non aveva: egli infatti, se non avesse inviato quelle a peccare, sarebbe stato costretto a peccare nella sua totalità, invaso dalla razza delle tenebre.

Se invece non potevano essere costrette, egli peccò, quando le inviò là dove potevano essere costrette; e pertanto sarebbe più degno del cuoio del parricida lui, che fece ciò per libera decisione, che non quelle, che per obbedienza andarono lì dove persero il libero arbitrio con cui vivere rettamente.

Se invece, egli stesso invaso e posseduto, poteva essere costretto a peccare, a meno di provvedere alla propria salvezza mediante l'ignominia prima e il supplizio poi di una parte di sé, e non ci fu nel vostro dio né nelle sue parti una volontà libera, egli non si atteggi a giudice, ma si riconosca colpevole: non perché ha subìto ciò che non voleva, ma perché finge di rendere giustizia, condannando quelli che sapeva avevano subìto, piuttosto che commesso, il male; cosa che egli simula all'unico scopo di non apparire sconfitto: come se fosse di qualche profitto per uno sventurato essere chiamato felice o fortunato.

Sicuramente sarebbe stato meglio se il vostro dio, senza dar prova alcuna di equità, non avesse risparmiato né i giusti né i peccatori ( ciò che da ultimo Fausto, senza capire nulla, rimprovera al nostro Dio ), piuttosto che infierire così sulle proprie membra: quasi fosse poco averle consegnate ai nemici perché venissero avvelenate, prive della possibilità di espiazione, senza anche accusarle del falso crimine di iniquità.

Esse, dice, a ragione scontano un supplizio così terribile e senza fine, poiché tollerarono di " allontanarsi " dalla loro primitiva natura luminosa e divennero nemiche della luce santa.

E perché mai, se non perché, come dice egli stesso, erano a tal punto radicate nella iniziale avidità dei prìncipi delle tenebre da essere incapaci di ricordare la propria origine e di separarsi dalla natura nemica?

Dunque anime simili non compirono nulla di male, bensì soffrirono da innocenti un male così grande.

Per opera di chi, se non in primo luogo di colui che ordinò loro di allontanarsi da lui verso un male così grande?

Ebbero dunque di lui un'esperienza peggiore come padre che come nemico.

Il padre, infatti, le inviò verso un male così grande; il nemico, invece, desiderò un bene, bramando di godere di esse e non di danneggiarle: l'uno ha nuociuto loro sapendolo, l'altro senza saperlo.

Ma un dio come questo, debole e senza risorse, non era in grado di difendersi diversamente, prima contro un nemico temerario, poi contro uno rinchiuso.

Quindi, che almeno non le accusi, esse per la cui obbedienza è salvo e per la cui morte è al sicuro!

Se fu costretto a combattere, lo fu forse anche a calunniare?

Infatti, quando " hanno concesso a se stessi di allontanarsi dalla loro precedente brillantezza naturale e sono divenuti nemici della santa luce ", furono costrette a ciò dal nemico: se non erano in grado di resistergli, subiscono la condanna da innocenti; se invece erano in grado ma non vollero, perché adducete la favola di una natura del male, quando l'origine del peccato è nella volontà propria?

Senza dubbio fecero questo per propria responsabilità, non per l'altrui violenza, giacché pur potendo resistere al male non vollero.

Se l'avessero fatto, avrebbero fatto bene: se non l'avessero fatto, avrebbero peccato in maniera grave e smisurata; se poterono e non lo fecero, significa che non vollero.

Se dunque non vollero, il delitto pertiene alla volontà, non alla necessità.

Quindi l'inizio del peccato è nella volontà: ma donde ha inizio il peccato, da lì ha inizio il male, cioè l'agire contro un comandamento giusto oppure il soffrire a motivo di un giusto giudizio.

Pertanto non vi è motivo alcuno, quando vi domandate da dove viene il male, di precipitare nel male così grande di un simile errore: chiamare natura del male una natura abbondante di tanti beni e inserire l'orribile male della necessità nella natura del sommo bene prima della sua commistione con la natura del male.

E la causa di questo vostro errore è la superbia, che non avreste se non voleste: invece voi, volendo in qualunque modo difendere ciò in cui siete precipitati, sottraete l'origine del peccato all'arbitrio della volontà e collocate la natura del male in una favola vana e falsa.

Per ciò stesso, resta solo che diciate che anche quelle anime che devono essere condannate all'incatenamento eterno in quel globo orribile sono divenute nemiche della luce santa non per loro volontà, ma per necessità; e che stabiliate il vostro dio come giudice, tale che presso di lui non potete giovare in nulla a coloro di cui difendete la causa dimostrando che agirono per necessità, e come re, tale che da lui non riuscite neppure a implorare indulgenza per i vostri fratelli, figli e membra suoi, la cui inimicizia verso di voi e verso lui stesso sostenete derivare non dalla volontà ma dalla necessità.

O crudeltà smisurata! A meno che non vi convertiate in suoi difensori, al fine di scusare anche lui in quanto agisce per necessità.

Se poteste trovare un altro giudice, che libero dal vincolo della necessità si comportasse secondo giustizia, egli certo non inchioderebbe costui all'esterno del globo, ma ve lo chiuderebbe dentro assieme al suo stesso terribile nemico.

Perché infatti non dovrebbe giustamente essere il primo a subire la pena della condanna colui che è il primo a commettere un delitto per necessità?

Fareste dunque molto meglio a scegliervi un dio in base al paragone con uno peggiore!

Un dio non quale noi lo adoriamo, ma quale voi immaginate o pensate che noi lo adoriamo: un dio che senza alcun criterio di giustizia, senza alcuna distinzione tra condanna e correzione non risparmiasse fra i suoi servi né il giusto né il peccatore, piuttosto che non risparmiare le proprie membra, innocenti se la necessità non è un delitto, oppure divenute colpevoli per avergli obbedito se anche la necessità è un delitto, così da essere condannate in eterno da colui insieme al quale dovrebbero o essere congiuntamente assolte, se dopo la vittoria spirasse un po' di libertà, o congiuntamente condannate, se dopo la vittoria il potere della necessità fosse tale che anche la giustizia valesse qualcosa.

Invece voi vi inventate un dio, non quello vero e sommo che noi adoriamo, ma non so quale altro falso, che convinti o mentendo dite sia quello adorato da noi; un tale dio tuttavia è certo molto migliore del vostro: tutti e due naturalmente non esistono e sono vostre invenzioni, eppure quello che accusate come fosse il nostro lo immaginate migliore rispetto a quello che adorate come vostro.

23 - Difesa dei Patriarchi e dei Profeti dall'accusa di immoralità

Così anche i patriarchi e i profeti che denigrate non sono quelli che noi onoriamo, ma quelli che - non avendo compreso i nostri libri - avete inventato con malevola vanità: e tuttavia costoro, anche come vi immaginate che fossero, ci vorrebbe poco a dire che sono migliori dei vostri eletti che osservano tutti i comandamenti di Mani, se non anche a dimostrare che sono migliori del vostro stesso dio.

Non comincerò a dimostrarlo se non prima di aver difeso dalle vostre accuse i nostri santi padri, patriarchi e profeti, con l'aiuto del Signore contro cuori carnali e con chiara argomentazione.

Comunque, Manichei, basterebbe rispondervi così da insegnarvi che anche quelli che reputate vizi dei nostri sono da anteporsi alle lodi dei vostri, aggiungendo per colmare la vostra confusione che anche il vostro dio risulterebbe di gran lunga peggiore del tipo di uomini che, secondo le vostre azzardate affermazioni, sarebbero stati i nostri padri.

Come ho detto, basterebbe rispondervi così.

Ma poiché alcuni, anche al di là delle vostre chiacchiere, restano spontaneamente turbati paragonando la vita dei profeti nell'Antico Testamento con la vita degli apostoli nel Nuovo e non sono in grado di distinguere gli usi di quel tempo, in cui la promessa era velata, da quelli di questo tempo, in cui la promessa si rivela, mi sento spinto a rispondere in primo luogo a quanti osano mettersi al di sopra dei profeti in nome della propria temperanza o cercano nei profeti una giustificazione alla propria malizia.

24 - Nel Vecchio Testamento non solo le parole, ma anche le azioni sono profezia di Cristo e della Chiesa

Su tale argomento, dico in primo luogo che di quegli uomini fu profetica non solo la lingua, ma anche la vita, e che l'intero regno del popolo ebraico fu in qualche modo un grande profeta, in quanto profetizzò qualcuno di grande.

Riguardo dunque a coloro che lì avevano il cuore istruito nella sapienza di Dio, bisogna cercare la profezia di Cristo che stava per venire e della Chiesa non solo in ciò che dicevano, ma anche in ciò che facevano; riguardo invece agli altri e ai componenti di quel popolo presi nell'insieme, essa va cercata nei fatti che per volere di Dio accadevano fra loro o rispetto a loro.

Tutte quelle cose, infatti, come dice l'Apostolo, avvennero come figure per noi. ( 1 Cor 10,6 )

25 - Superficialità di giudizio dei Manichei, simile a quella dei pagani su alcune azioni di Gesù

Costoro invece in alcune azioni, dalla cui profondità sono ben lontani, biasimano quasi una certa libidine dei profeti: allo stesso modo di alcuni pagani sacrileghi, che in Cristo deplorano come stoltezza o addirittura come follia il fatto che richiese frutti da un albero in una stagione dell'anno non appropriata, o come sentimento di una fatuità quasi puerile ( Mt 21,18-21 ) il fatto che, piegato il capo, scriveva nella terra e che dopo aver risposto a chi lo interrogava cominciò a farlo di nuovo. ( Gv 8 )

Non sanno infatti né comprendono che alcune virtù degli animi adulti sono per qualche aspetto assai simili ai vizi degli animi dei bambini, senza tuttavia che si possa stabilire alcun legittimo paragone.

Coloro che criticano codeste cose negli adulti somigliano ai bambini ignoranti i quali, a scuola, avendo imparato come importante che un nome al singolare si deve concordare con un verbo al singolare, criticano l'autore più dotto della lingua latina per aver detto: Pars in frustra secant.3

Avrebbe dovuto dire, sostengono, " secat ".

E poiché sanno che si dice: " religio ", lo rimproverano perché ha detto: Relligione patrum,4 con la lettera elle raddoppiata.

In base a questo, forse non sarebbe assurdo dire, nei rispettivi ordini, che la distanza che separa le figure retoriche e i metaplasmi dei dotti dai solecismi e dai barbarismi degli ignoranti è grande quanto quella che separa le azioni figurate dei profeti dai peccati di libidine dei malvagi.

Per tanto, come un bambino sarebbe percosso con la sferza, se ripreso per un barbarismo volesse difendersi adducendo il metaplasmo di Virgilio, allo stesso modo uno che dopo essersi rotolato con la schiava di sua moglie adducesse come esempio a propria difesa il fatto di Abramo che generò un figlio da Agar, volesse il cielo che si emendasse, corretto non appena con la sferza, ma con i bastoni, per non finire punito col supplizio eterno assieme agli altri adulteri!

Naturalmente quelle sono cose minime, mentre queste sono importanti, e la similitudine non aveva certo lo scopo di porre sullo stesso livello una figura retorica e un mistero o il solecismo e l'adulterio.

Tuttavia, in proporzione ai diversi generi di cose, ciò che la perizia o l'imperizia valgono per le virtù o i vizi del linguaggio, la saggezza o l'insensatezza lo valgono per le virtù o i vizi del costume, sebbene a un livello di gran lunga diverso.

26 - Perché la Scrittura propone alla nostra attenzione non solo la giustizia, ma anche il peccato dei Padri?

Per non lanciarci temerariamente a lodare o biasimare, accusare o difendere, reprimere o tollerare, condannare o assolvere, cercare o evitare qualunque cosa ( tutti modi, questi, per trattare dei peccati o delle rette azioni ), dobbiamo dapprima considerare cos'è il peccato, e poi esaminare le azioni dei santi scritte nei libri divini al fine di vedere, per quanto ci è possibile con retta ragione, qualora trovassimo peccati anche di costoro, per quale utilità anch'essi siano stati racchiusi nella Scrittura e affidati alla memoria.

Se poi troveremo cose che agli stolti o ai malevoli sembrano peccati e invece non lo sono, e tuttavia non vi brilla un qualche esempio di virtù, dobbiamo esaminare per quale motivo anch'esse furono inserite in scritti che salutarmente crediamo furono composti per servirci nella condotta della vita presente e nel raggiungimento della vita futura.

D'altra parte, tutte le attestazioni di giustizia che risplendono nelle azioni dei santi, nessuno, neppure tra gli ignoranti, dubita che dovessero essere messe per iscritto.

La discussione può nascere dunque su cose che può sembrare siano state scritte inutilmente, dato che né appaiono ben fatte né sono peccati, oppure addirittura scritte in modo pericoloso, se si dimostra che sono peccati: nel timore che suscitino emulazione, sia nel caso che nei libri stessi non siano deplorate e si possa pensare quindi che non si tratti di peccati, sia nel caso che siano deplorate anche lì ma vengano commesse nella speranza di un facile perdono, dal momento che le si è trovate anche presso i santi.

27 - Definizione preliminare del peccato: violazione dell'ordine naturale ed eterno

Il peccato è un'azione, una parola o un desiderio contrario alla legge eterna.

La legge eterna è la ragione divina o volontà di Dio che ordina di mantenere l'ordine naturale e proibisce di turbarlo.

Bisogna dunque cercare quale sia nell'uomo l'ordine naturale.

L'uomo è composto di anima e di corpo, come pure l'animale.

Nessuno dubita che nell'ordine naturale l'anima debba essere anteposta al corpo.

Però nell'anima dell'uomo è presente la ragione, che nelle bestie non c'è.

Pertanto, come l'anima è anteposta al corpo, così nell'anima la ragione è per legge naturale anteposta alle altre sue parti, che anche le bestie possiedono; e nella stessa ragione, che in parte è contemplativa e in parte attiva, senza dubbio la contemplazione sta al primo posto.

In essa infatti c'è anche l'immagine di Dio, attraverso la quale, mediante la fede, noi veniamo trasformati per la visione.

Dunque la ragione attiva deve obbedire alla ragione contemplativa, sia quando questa opera mediante la fede, come avviene per tutto il tempo in cui siamo pellegrini lontano dal Signore, ( 2 Cor 5,6 ) sia quando opera mediante la visione, come avverrà quando saremo simili a lui, ( 1 Gv 3,2 ) poiché lo vedremo quale egli è, essendo divenuti per sua grazia uguali ai suoi angeli ( Mt 22,30 ) anche nel nostro corpo spirituale e avendo riacquistato l'originaria veste dell'immortalità e dell'incorruttibilità, con cui sarà rivestito questo nostro corpo mortale e corruttibile, affinché la morte sia ingoiata dalla vittoria, ( 1 Cor 15,53-54 ) una volta che la giustizia sarà stata condotta a perfezione dalla grazia.

Poiché anche gli angeli, santi e sublimi, hanno una loro propria contemplazione e azione: essi si impongono di compiere ciò che ordina colui che contemplano, al cui eterno comando servono liberamente, perché ciò li rende lieti.

Noi invece, essendo il nostro corpo morto a causa del peccato, prima che Dio vivifichi anche i nostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in noi, ( Rm 8,10-11 ) viviamo nella giustizia, nella misura della nostra debolezza, secondo la legge eterna che custodisce l'ordine naturale, se viviamo di una fede non falsa che opera mediante la carità, ( Gal 5,6 ) tenendo riposta nei cieli, in una coscienza buona, la speranza dell'immortalità, dell'incorruttibilità e del compiersi della giustizia stessa sino a quella ineffabile dolcissima pienezza di cui, durante questo pellegrinaggio, bisogna avere fame e sete, fintanto che camminiamo nella fede e non nella visione. ( 2 Cor 5,7 )

28 - Peccare è infrangere l'ordine, cedendo al piacere illecito

L'azione dell'uomo che serve la fede, la quale a sua volta è sottomessa a Dio, tiene a freno tutti i piaceri mortali e li riconduce nella regola della natura, anteponendo i migliori a quelli più bassi mediante un amore ordinato.

Se infatti l'illecito non avesse attrattiva, nessuno peccherebbe.

Pecca dunque colui che dà spazio, piuttosto che porre un freno, al piacere dell'illecito.

L'illecito è ciò che è proibito da quella legge mediante cui si conserva l'ordine naturale.

È una questione complessa se esista una qualche creatura razionale che non sia attratta dall'illecito: se essa esiste, a quel genere non appartiene né l'uomo né la creatura angelica che non rimase nella verità; questi esseri razionali, infatti, furono creati di tal genere che esistesse in loro la possibilità di frenare il piacere dell'illecito, non frenando il quale peccarono.

Grande è dunque anche la creatura umana, dal momento che essa è dotata per costituzione di quella facoltà per la quale, se avesse voluto, non sarebbe caduta.

Grande dunque, e sommamente degno di lode è Dio che la creò. ( Sal 48,2 )

Creò anche esseri inferiori, che non possono peccare; ne creò anche di migliori, che non vogliono peccare.

Infatti la natura della bestia non pecca, poiché non compie nulla contro la legge eterna, alla quale è così sottomessa che non può parteciparne.

Al contrario, la sublime natura angelica non pecca, perché è così partecipe della legge eterna che soltanto Dio la attrae, alla cui volontà essa obbedisce senza sperimentare alcuna tentazione.

L'uomo invece, per il cui peccato la vita sulla terra è tutta una tentazione, ( Gb 7,1 ) sottometta a se stesso ciò che ha in comune con le bestie, sottometta a Dio ciò che ha in comune con gli angeli, finché, perfezionata la giustizia e raggiunta l'immortalità, non sia innalzato al di sopra degli uni e uguagliato agli altri.

29 - L'uomo, creatura razionale, deve dominare l'attrattiva del piacere e rimanere nell'ordine

I piaceri mortali devono essere eccitati o acquietati fintanto che si debba ricostituire o mantenere la salute mortale, sia essa di ciascun singolo uomo o dello stesso genere umano; se escono dal limite e, contro la misura della temperanza, le passioni si impossessano dell'uomo che non domina se stesso, essi diverranno illeciti e vergognosi e degni di essere corretti tramite le sofferenze.

Se poi, dopo aver turbato colui che dovrebbe governarli, lo inabissano nella voragine di una depravazione abituale, al punto che costui, credendo che rimarranno impuniti, rifiuta la medicina della confessione e della penitenza, per mezzo della quale, una volta corretto, potrebbe riemergere; o se, con una morte del cuore ancora peggiore, bestemmiando contro la legge eterna della provvidenza, costui cerca per essi una giustificazione e arriva in tali condizioni all'ultimo giorno, quella legge irreprensibile lo giudicherà degno non di correzione, ma di dannazione.

30 - Difesa delle azioni di Abramo. Si unì alla concubina non per libidine, ma nel desiderio lecito di un figlio

Dopo aver consultato la legge eterna che comanda di conservare l'ordine naturale e vieta di perturbarlo, vediamo in che cosa il padre Abramo peccò, cioè che cosa fece contro questa legge nelle azioni che Fausto gli obietta come grandi crimini.

" Bruciando di un desiderio insano di avere discendenza e non credendo affatto a Dio che già gliela aveva promessa da Sara sua moglie, si rotolò con una concubina ".

Ma codesto Fausto, accecato dall'insano desiderio di recriminare, ha palesato l'empietà della sua eresia e, senza esserne consapevole e sbagliando, ha lodato l'unione di Abramo.

Infatti la legge eterna, ovvero la volontà di Dio creatore di tutte le creature che comanda di rispettare l'ordine naturale, permette che nell'atto coniugale regolato dalla ragione venga soddisfatto il piacere della carne al solo fine della propagazione della prole, in modo che non ci si asservisca a saziare la passione ma si provveda alla conservazione della specie; al contrario, la legge perversa dei Manichei ordina a chi si unisce di evitare innanzitutto la procreazione, affinché il loro dio, che essi piangono come incatenato in tutti i semi, non sia ancor più strettamente imprigionato in una donna che concepisce: cosicché il loro dio si sparge in vergognosa effusione, piuttosto che restare avvinto in un laccio crudele.

Il fatto non è dunque che Abramo bruciava dal desiderio insano di avere figli, ma che Mani delirava per l'insana follia di evitarli.

Così quello, rispettando l'ordine della natura, con la sua unione carnale nulla faceva se non far nascere un uomo; questo invece, andando dietro alla perversità della sua favola, nulla temeva in qualunque unione carnale se non che dio diventasse prigioniero.

31 - Sara non fu complice di Abramo nel male, ma agì con il marito secondo il diritto

Quando poi Fausto, nell'azione di Abramo, rimprovera la complicità da parte della moglie, anche in tal caso si pone con animo malvagio e con l'intenzione di vituperarlo: tuttavia, senza saperlo né volerlo, li loda ambedue.

Infatti essa non si rese complice di un atto vergognoso del marito, affinché questi saziasse le sue brame con un piacere turpe e illecito, ma piuttosto, desiderando anch'essa dei figli in conformità all'ordine della natura e sapendosi sterile, in virtù del suo diritto rivendicò con legittima potestà la fecondità del grembo della sua schiava, ( Gen 16,2-4 ) non cedendo alle brame di suo marito bensì comandandogli di obbedirle.

Né ciò fu una superbia contraria all'ordine.

Chi infatti non sa che la moglie deve obbedire al marito come al suo signore?

Ma per quanto attiene alle membra del corpo per le quali il sesso si differenzia, l'Apostolo dice: Allo stesso modo neanche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma lo è la moglie; ( 1 Cor 7,4 ) cosicché mentre in tutte le altre azioni miranti alla pace tra gli esseri umani la donna deve obbedire al marito, in questo solo ambito, che riguarda la differenza dei sessi nella carne e il loro congiungersi nell'unione carnale, il marito e la moglie hanno analoga e reciproca potestà.

Dunque il figlio che Sara non aveva potuto avere da sé, volle averlo dalla schiava: tuttavia da quel seme da cui, se avesse potuto, avrebbe dovuto averlo lei stessa.

Una moglie non avrebbe mai agito così, se fosse stata posseduta da concupiscenza carnale per il corpo del marito: si sarebbe piuttosto ingelosita della concubina, anziché farne una madre.

Pertanto il desiderio di avere una prole fu pio, dal momento che il desiderio dell'unione carnale non fu libidinoso.

32 - Abramo non mancò di fiducia verso Dio: infatti non sapeva ancora che la promessa di un figlio riguardava Sara

Il fatto non avrebbe difesa se Abramo, come obietta Fausto, non fidandosi per nulla di Dio che già gli aveva promesso un figlio da Sara, avesse voluto averlo da Agar.

Ma ciò è apertamente falso: Dio non gli aveva ancora fatto questa promessa.

Chi vuole, riprenda in esame ciò che la Scrittura dice in precedenza: troverà che alla stirpe di Abramo era già stata promessa una terra e una discendenza innumerevole, ( Gen 12,3 ) ma che ancora non era stato chiarito in che modo sarebbe avvenuta la propagazione di quella stirpe: se dalla carne di Abramo, qualora egli avesse generato da sé, o dalla sua volontà, qualora avesse adottato qualcuno; se dalla sua carne, non era ancora stato manifestato se da Sara o da un'altra donna.

Chi vuole, dicevo, legga, e troverà che Fausto o si inganna per imprudenza o inganna per impudenza.

Abramo, vedendo che non gli nascevano figli e tuttavia fidando nella promessa fatta alla sua stirpe, in un primo tempo pensava all'adozione.

Lo indica il fatto che, parlando con Dio, dice di un suo domestico: Costui sarà il mio erede, come se dicesse: " Poiché non mi hai dato discendenza da me stesso, compi in costui ciò che hai promesso alla mia discendenza ".

Se infatti non si potesse chiamare discendenza di qualcuno null'altro che quel che nasce dalla sua carne, neppure l'Apostolo chiamerebbe noi discendenza di Abramo: ( Gal 3,29 ) noi che certo non deriviamo da lui secondo la carne, ma siamo divenuti sua discendenza imitando la sua fede e credendo in Cristo, la cui carne è discesa dalla sua.

Allora Abramo udì che il Signore gli diceva: Non costui sarà il tuo erede, ma uno che uscirà dalle tue viscere: egli sarà il tuo erede. ( Gen 15,3-4 )

Da quel momento, eliminato il pensiero dell'adozione, Abramo sperava ormai in una discendenza da se stesso, ma rimaneva incerto se l'avrebbe ottenuta da Sara o da un'altra: Dio volle che ciò gli rimanesse nascosto, finché quella schiava fosse divenuta figura del Vecchio Testamento.

Cosa c'è allora di strano se Abramo, vedendo che sua moglie sterile desiderava che i figli, che lei stessa non poteva partorire, le venissero dalla sua serva e da suo marito, non cedette al proprio desiderio carnale ma obbedì alla potestà della moglie, credendo che Sara volesse questo per indicazione di Dio, il quale gli aveva già promesso una discendenza sua propria, ma non gli aveva rivelato da quale donna?

Invano dunque Fausto si è lanciato come un pazzo a rinfacciare questa colpa, accusando Abramo di non avere fede, mentre è lui a non averne.

Le altre cose infatti non è riuscito a comprenderle per il suo accecamento nel non credere: ma questa, per la brama di calunniare, ha tralasciato perfino di leggerla.

33 - Abramo non mercanteggiò Sara, bensì la mise al sicuro

Fausto inoltre chiama quest'uomo giusto e fedele " turpissimo trafficante del suo matrimonio ": a motivo dell'avarizia e del ventre, in momenti diversi Abramo avrebbe venduto come concubina a due re, Abimelech e Faraone, la moglie Sara, poiché era bellissima, fingendo che fosse sua sorella.

Non è certo questa una bocca veritiera che distingue l'onestà dall'infamia, ma piuttosto una bocca maldicente che tutto converte in delitto!

Il comportamento di Abramo, infatti, appare simile a quello di un mezzano, ma soltanto a quelli che non sono in grado, alla luce della legge eterna, di distinguere il bene dal peccato: agli occhi di costoro, la costanza può sembrare ostinazione, la virtù della fiducia è scambiata per il vizio della sfrontatezza, e analogamente qualsiasi azione, da parte di chi non vede rettamente, può essere rinfacciata come non retta a chi la compie.

Abramo infatti non fu né complice di un crimine di sua moglie, né fece mercato dell'adulterio di lei.

Essa non consegnò la sua schiava alla libidine del marito, ma gliela condusse per il solo scopo della generazione, senza turbare in nulla l'ordine naturale, come era in sua potestà, dando piuttosto un ordine a lui che le obbediva anziché accondiscendere alla di lui concupiscenza.

In modo analogo egli tacque che si trattava di sua moglie, coniuge casta e a lui unita con casto cuore, del cui animo, dimora della virtù della pudicizia, in nessun modo dubitava, e disse che era sua sorella, per non venire ucciso ed essa non cadesse quindi prigioniera in mani straniere e empie: sicuro che il suo Dio non avrebbe permesso che essa patisse alcunché di vergognoso e disonorevole.

La sua fede e la sua speranza non lo tradirono: Faraone infatti, atterrito da prodigi e afflitto da molti mali a causa di lei, quando venne a sapere da Dio che era sua moglie gliela restituì intatta nell'onore; lo stesso fece Abimelech ammonito e istruito da un sogno. ( Gen 12; Gen 20 )

34 - Non rinnegò Sara come moglie

Tuttavia ad alcuni - che non sono calunniatori e maldicenti come Fausto ma tributano il dovuto onore ai medesimi libri che costui invece o biasima senza comprenderli oppure non comprende nel biasimarli - nel considerare questa azione di Abramo sembrò che egli fosse venuto meno alla fermezza della fede, che avesse titubato e che avesse rinnegato sua moglie per paura della morte, come Pietro fece con il Signore. ( Mt 26,70-74 )

Se si dovesse necessariamente dare tale interpretazione, riconoscerei il peccato di quell'uomo; né per questo riterrei cancellati e annullati tutti i suoi meriti, come neppure quelli dell'apostolo, sebbene rinnegare una moglie non sia una colpa pari a rinnegare il Salvatore.

Ma possedendo io un'interpretazione che non mi obbliga ad interpretare così, non sono costretto per nessun motivo a cadere nella temerarietà di accusare uno che nessuno mi dimostra essere caduto nella menzogna per paura.

Infatti non gli fu chiesto se fosse sua moglie, e dunque neppure rispose che non lo era; quando gli fu domandato chi fosse quella donna, affermò che era sua sorella, ma non negò che fosse sua moglie: tacque una parte della verità, ma non disse nulla di falso.

35 - Non mentì chiamando Sara "sorella": il termine significa infatti "consanguinea"

Siamo forse pazzi a tal punto da seguire qui Fausto, che afferma che Abramo mentì chiamandola sorella, quasi avesse appreso altrove la genealogia di Sara, giacché la sacra Scrittura non è esplicita in proposito?

Ritengo giusto che su tale questione, che Abramo conosceva mentre noi la ignoriamo, si dia credito al patriarca che dice ciò che sa piuttosto che a un Manicheo che recrimina ciò che non sa.

Abramo viveva in un'epoca in cui, secondo le usanze umane, non era lecito unirsi in matrimonio tra fratelli nati dagli stessi genitori o dallo stesso padre o dalla stessa madre, mentre era consuetudine, senza che alcuna legge o alcun potere lo vietasse, sposarsi tra figli di fratelli o tra consanguinei di grado più lontano: che c'è dunque di strano se egli aveva per moglie sua sorella, cioè una nata dal sangue di suo padre?

Infatti al re che gliela restituiva disse egli stesso che era sua sorella da parte di padre e non da parte di madre: quando cioè ormai nessuna paura lo costringeva a fingere che fosse sua sorella, dato che il re aveva saputo che era sua moglie e, atterrito da Dio, gliela restituiva onorata.

Ebbene, la Scrittura attesta che presso gli antichi, col nome di fratelli o sorelle, si soleva definire in generale i consanguinei o le consanguinee.

Infatti Tobia, pregando prima di unirsi a sua moglie dice a Dio: Ed ora, Signore, tu sai che non per lussuria prendo questa mia sorella, ( Tb 8,9 ) sebbene essa non fosse nata né dallo stesso padre né dalla stessa madre di lui, bensì dalla stessa parentela; ( Tb 6,11; Tb 7,2 ) e Lot è definito fratello di Abramo, ( Gen 13,8 ) sebbene Abramo ( Gen 11,31 ) fosse suo zio paterno; per la medesima consuetudine, nel Vangelo sono chiamati fratelli del Signore non certo quelli partoriti dalla vergine Maria, ma tutti i parenti per consanguineità. ( Mt 12,46 )

36 - Abramo non mancò di fiducia, bensì non volle tentare il Signore

Qualcuno dirà: " Perché Abramo non ha confidato nel suo Dio al punto da non temere di confessare che era sua moglie?

Dio infatti era in grado di allontanare da lui la morte che egli temeva e anche di custodirlo da ogni pericolo assieme a sua moglie durante quel viaggio, in modo che né sua moglie, sebbene bellissima, fosse insidiata da alcuno, né egli venisse ucciso a causa di lei ".

Certamente Dio avrebbe potuto fare questo: chi sarebbe tanto insensato da negarlo?

Ma se Abramo, interrogato, avesse risposto che quella donna era sua moglie, avrebbe affidato alla tutela di Dio due cose: la propria vita e il pudore della consorte.

Ma la sana dottrina insegna che l'uomo, quando può agire, non deve tentare il Signore suo Dio. ( Dt 6,16 )

Non c'è dubbio che anche lo stesso Salvatore poteva difendere i suoi discepoli, eppure disse loro: Se sarete perseguitati in una città, fuggite in un'altra. ( Mt 10,23 )

E di ciò dette per primo l'esempio.

Infatti, pur avendo il potere di dare la sua vita e di darla soltanto qualora lo volesse, ( Gv 10,18 ) tuttavia da bambino fuggì in Egitto in braccio ai genitori. ( Mt 2,14 )

Per il giorno della festa non salì apertamente, ma segretamente, nonostante altre volte avesse parlato in pubblico ai Giudei che, adirati, lo ascoltavano con animo del tutto ostile e tuttavia non riuscivano a mettere le mani su di lui poiché non era ancora giunta la sua ora: ( Gv 7, 10.30 ) non nel senso che fosse costretto a morire essendo quell'ora ineluttabile, ma nel senso che reputava quell'ora opportuna per essere ucciso.

Quindi, insegnando e rimproverando apertamente e senza tuttavia permettere che la rabbia dei nemici potesse qualcosa contro di lui, mostrava la potenza di Dio; parimenti, fuggendo e nascondendosi educava la debolezza dell'uomo, perché non osi tentare Dio quando egli stesso è in grado di agire per evitare ciò da cui deve guardarsi.

Certo neppure l'apostolo Paolo disperava dell'aiuto e della divina protezione e aveva perduto la fede, quando fu calato lungo il muro in una cesta per sfuggire alle mani dei nemici. ( At 9,25 )

Fuggì così non perché non confidava in Dio, ma perché sarebbe stato tentare Dio non voler fuggire così avendone la possibilità.

Pertanto, dal momento che, in mezzo a sconosciuti, a causa della estrema bellezza di Sara era in pericolo sia la purezza di lei sia la vita del marito, e Abramo non era in grado di difendere ambedue le cose, ma soltanto una, cioè la propria vita, per non tentare il suo Dio egli fece ciò che poté, e ciò che non poté lo affidò a Dio.

Non riuscendo a nascondere di essere uomo, nascose di essere marito, per non venire ucciso; sua moglie la affidò a Dio, perché non fosse disonorata.

37 - La purezza di Sara non fu violata

Si potrebbe certo discutere con più rigore se la purezza di quella donna sarebbe stata violata anche nel caso che uno avesse avuto con lei rapporti carnali.

Essa infatti avrebbe potuto permetterlo per salvare la vita del marito, che non avrebbe ignorato la cosa ma anzi gliel'avrebbe potuta comandare, senza per questo tradire affatto la fedeltà coniugale né ricusare la potestà maritale: così come egli non fu adultero quando, obbedendo alla potestà della moglie, acconsentì a generare un figlio da una schiava.

Tuttavia, in forza dei princìpi, poiché il caso di una donna che si sottomette a due uomini vivi per giacere con essi non è come quello di due donne che fanno ciò con un solo uomo, accettiamo come molto più veritiero e onesto che il padre Abramo non tentò Dio quando, da uomo, decise ciò che poté circa la propria vita e sperò in Dio, al quale affidò la purezza della moglie.

38 - Sara è figura della Chiesa, sposa di Cristo

Ma in questo fatto reale, consegnato ai libri divini e fedelmente narrato, chi non amerà considerare attentamente anche l'evento profetico e bussare con desiderio e fede pietosa alla porta del mistero, affinché il Signore gli apra e gli mostri di chi era figura quell'uomo e di chi è moglie colei che in questo viaggio e in mezzo a stranieri non si permette che venga contaminata e macchiata, perché appartenga senza macchia né ruga a suo marito?

Certamente è per la gloria di Cristo che la Chiesa vive rettamente, affinché la sua bellezza vada ad onore del marito, come Abramo veniva onorato tra gli stranieri a causa della bellezza di Sara; e ad essa, alla quale nel Cantico dei cantici si dice: O bella tra le donne! ( Ct 1,7 ) per merito della sua bellezza i re offrono doni, come il re Abimelech ne offrì a Sara, ammirando in lei soprattutto il decoro della sua bellezza, che poté amare ma non poté violare.

Anche la santa Chiesa, infatti, è sposa del Signore Gesù Cristo in modo nascosto.

Allo stesso modo, è nascostamente e nel profondo di uno spirituale segreto che l'anima umana aderisce al Verbo di Dio, perché siano due in una sola carne: è il mistero grande del matrimonio che l'Apostolo esalta in Cristo e nella Chiesa. ( Ef 5,31-32 )

Pertanto, il regno terreno di questo mondo, del quale erano figura i re cui non fu permesso di contaminare Sara, non sperimentò né scoprì la Chiesa quale sposa di Cristo, ovvero quanto essa fosse unita e sottomessa a lui come al suo unico marito, se non quando tentò di violarla e si arrese, per la fede dei Martiri, alla divina testimonianza, e una volta emendatosi onorò nei re successivi colei che presso i precedenti non era riuscito a sottomettere alla propria violenza.

Infatti, ciò che allora fu figurato prima e dopo nello stesso re, si compì in questo regno con i re precedenti e successivi.

39 - La Chiesa è sorella di Cristo per parentela celeste e non terrena

Ma quando si dice che la Chiesa è sorella di Cristo per parte di padre e non di madre, si fa riferimento non alla parentela derivante dalla nascita terrena, che passerà, ma a quella che deriva dalla grazia celeste, che rimarrà in eterno.

Secondo tale grazia, noi non saremo più una razza mortale, avendo ricevuto il potere di essere chiamati figli di Dio e di esserlo realmente. ( 1 Gv 3, 1 )

Questa grazia infatti non l'abbiamo ricevuta dalla Sinagoga, madre di Cristo secondo la carne, ma da Dio Padre.

Quanto poi alla parentela terrena, che genera temporalmente per la morte, Cristo ci ha insegnato a rinnegarla e a disconoscerla, chiamandoci ad un'altra vita in cui nessuno muore, quando dice ai discepoli: Non chiamate nessuno " padre " sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello che sta nei cieli. ( Mt 23,9 )

Di ciò offrì un esempio quando disse egli stesso: Chi è mia madre e chi sono miei fratelli?

E stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: Ecco i miei fratelli.

E affinché nessuno lo ritenesse alludere con questo termine alla parentela terrena, aggiunse: E chiunque fa la volontà del Padre mio, questi è per me fratello, sorella e madre, ( Mt 12,48-50 ) come se dicesse: " Mi riferisco alla parentela paterna che viene da Dio, non a quella materna che viene dalla Sinagoga.

Dunque ora vi chiamo alla vita eterna, nella quale sono nato per l'immortalità, e non alla vita temporale, nella quale mi sono fatto mortale per chiamarvi ".

Indice

3 Virgilio, Aen., 1, 212
4 Virgilio, Aen., 2, 715