Gli stati di vita del cristiano

Indice

I gradi della chiamata

In quanto abbiamo sin qui visto si è manifestata già, accanto all'analogia verticale di scelta e chiamata, nella quale la scelta di risposta umana viene assunta nell'assoluta parola della scelta di Dio, anche un'analogia della chiamata estesa in senso orizzontale, poiché Dio non chiama e sceglie tutti gli uomini in maniera uguale, ma fa giungere la sua chiamata con diversa intensità e urgenza.

Nella misura in cui ogni chiamata è una chiamata personale, essa separa sempre il chiamato e lo tira fuori da un ambiente che non rimane colpito da questa chiamata, come i compagni di Daniele che « non vedevano la visione, ma furono presi da un tale terrore che fuggirono a nascondersi » ( Dn 10,7 ), o come i compagni di Paolo, che vivono insieme a lui quanto sta accadendo, « odono la voce, ma non vedono nessuno » ( At 9,7 ), o « vedono la luce, ma non comprendono la voce » ( At 22,9 ), o addirittura « cadono anch'essi a terra » ( At 26,14 ) senza però che la chiamata sia rivolta a loro e li interpelli; un ambiente che, come il popolo che sta attorno al Signore, percepisce anch'esso la voce del Padre, ma in modo tale che crede che sia stato un tuono o che un angelo abbia parlato con lui ( Gv 12,29 ), cosicché esso ottiene sì un'indiretta conoscenza dell'oggettività della chiamata e senza volerlo deve diventarne testimone, ma non acquista però alcuna intima comprensione della voce udita.

Questo processo può ripetersi in una cerchia di eletti che si restringe sempre più, allorché dapprima un intero popolo viene preso a parte e separato dagli altri popoli non chiamati, poi però all'interno di questo popolo comunità più piccole possono a loro volta udire una chiamata più ristretta, e all'interno di queste possono giungere chiamate ancora più intime e personali.

In questo processo, uno che nel primo senso è un chiamato sarà di nuovo per colui che è un chiamato nel secondo senso relativamente un non chiamato e quindi incapace di comprensione; forse crederà addirittura in buona fede di dover protestare, in base alla sua prima chiamata comune, contro la chiamata speciale di qualche singolo.

L'analogia o gerarchia delle chiamate che così sorge verrà garantita contro il disordine solo dal fatto che Signore di tutte le chiamate rimane l'unico Dio « che opera tutto in tutti » ( 1 Cor 12,6 ).

La chiamata che elegge è certo fondamentalmente segno di una grazia e quindi di una preferenza.

Ma Dio vieta sin dall'inizio di vedere la preferenza accordata ad uno come uno svantaggiare gli altri.

La scelta che prende a parte significa immediatamente, come grazia, missione: e cioè essenzialmente missione verso coloro che non sono stati colpiti dalla chiamata in modo altrettanto diretto e ricco di grazia.

Di conseguenza nessuno ha perciò il diritto di interpretare un non essere scelti nel senso di un esser stati rigettati.

La parabola dei lavoratori nella vigna mostra chiaramente che il provvisoriamente non chiamato può sempre venir chiamato in un'ora successiva, senza che questo ritardo gli rechi scapito: « Prendi ciò che è tuo e va'. Io però voglio dare anche a quest'ultimo altrettanto quanto a te.

Non posso io fare di ciò che è mio quello che voglio? O forse sei invidioso perché io sono buono? » ( Mt 20,14-15 ).

Anzi, se si prende sul serio l'idea della missione e quindi della rappresentanza, che cioè i chiamati vengono chiamati in favore degli altri e sbrigano il loro lavoro per quelli a cui giungerà il frutto, allora vale anche l'ultima affermazione della parabola: « Così gli ultimi saranno i primi, e i primi gli ultimi ( … )

Poiché infatti molti ( oppure, se si vuole: i molti, cioè: tutti ) sono i chiamati, ma pochi gli eletti » ( Mt 22,14 ).

Con questo impiego degli eletti si sciolgono gli enigmi delle scelte di Dio.

« Perché un giorno è più importante di un altro? Eppure la luce di ogni giorno dell'anno viene dallo stesso sole.

Essi sono distinti secondo il pensiero del Signore, che ha variato le stagioni e le feste.

Alcuni giorni li ha nobilitati e santificati, altri li ha lasciati nel numero dei giorni ordinari.

Anche gli uomini provengono tutti dalla polvere ( … )

Ma il Signore li ha distinti nella sua grande sapienza, ha assegnato loro destini diversi » ( Sir 33,7-11 ).

L'elezione è sapienza in relazione al tutto; per il fatto che egli « pone le sue opere a due a due l'una di fronte all'altra » ( Sir 33,15 ) è il Dio che fa tutte le cose molto buone.

Nell'Antico Testamento la chiamata giunge ad Abramo, « trovandolo » di mezzo alle genti ( Sap 10,5 ): « Parti dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre » ( Gen 12,1 ) e con l'obbedienza a questa chiamata viene chiamata anche tutta la sua discendenza.

Dapprima la sua discendenza secondo la carne, il popolo giudaico, ma poiché questa elezione è di nuovo in rappresentanza e simbolica, anche « tutte le stirpi della terra » ( Gen 12,3 ).

Così è allora Israele il popolo eletto: « Il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato tra tutti i popoli che sono sulla terra, il popolo che appartiene solo a Lui.

Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri » ( Dt 7,6-8 ).

« Ma tu, Israele, mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abramo mio amico, sei tu che io ho preso dalle estremità della terra e ho chiamato dalle regioni più lontane; io ti dico: Tu sei mio servo, io ti ho scelto e non ti ho mai rigettato » ( Is 41,8-9 ).

Grazie a questa scelta Israele diventa « popolo santo », anzi popolo « di santi » ( Sap 10,15 ).

Questo popolo è stato chiamato « per raccontare le meraviglie operate da Dio e proclamare la sua grandezza » ( Tb 13,4 ) in mezzo ai non chiamati.

Il santuario di Dio viene innalzato affinché come « città sulla montagna » ( Mt 5,14 ) attiri su di sé gli sguardi di tutti i popoli non chiamati: « Allora affluiranno verso di esso tutti i popoli e diranno: Venite, saliamo al monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe! Egli ci indicherà le sue vie! Vogliamo camminare per i suoi sentieri » ( Is 2,3 ).

Anzi, poiché le vocazioni di Dio sono senza pentimento e non possono venire ritrattate ( Sal 89,31-38; Rm 11,29 ), questa finalizzazione della vocazione di Israele rimane ancora in vigore anche quando esso, per la sua disobbedienza alla sua missione, viene rigettato per un certo tempo, poiché proprio « per la sua caduta la salvezza è giunta ai gentili, per suscitare la gelosia di Israele » ( Rm 11,11 ).

E Paolo conclude da questa efficacia di Israele operante attraverso la colpa che la sua vera e diretta missione per l'elezione e la santificazione del mondo intero si imporrà in misura ancora più forte: « Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza per il mondo e il loro fallimento ricchezza per i pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale! ( … )

Se il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai morti?

Se le primizie sono sante, lo sarà anche tutta la pasta; se è santa la radice, lo saranno anche i rami » ( Rm 11,12-16 ).

Attraverso Israele quindi, che nella sua interezza dovrà venir salvato ( Rm 11,26 ), è santificata anche l'intera massa dei gentili; nell'elezione di Israele sono pensati e invisibilmente preeletti « tutti i popoli della terra » ( Gen 12,3 ).

Ma l'elezione di Israele, sebbene reale e definitiva, rimane terrena e prefigurativa: « Tutte queste cose accaddero a loro come esempio ( … ) per noi, che viviamo il compimento dei tempi » ( 1 Cor 10,11 ), affinché da ultimo possa venir abbattuto « il muro di separazione che teneva divisi » ( Ef 2,14 ) e anche i pagani possano venir inseriti nell'elezione comune.

Ma Israele stesso è a sua volta l'universale che nei confronti delle vocazioni particolari in esso si comporta come il non chiamato.

Così dalle dodici tribù ne viene chiamata una, la tribù di Levi, per un servizio sacro particolare.

« Di tra gli Israeliti fa' venire a te Aronne tuo fratello coi suoi figli, affinché siano miei sacerdoti » ( Es 28,1 ).

Un dettagliato cerimoniale di consacrazione ( Lv 8 ) introduce il loro servizio, che viene così separato da ogni attività profana del popolo.

Ma anche questa elezione dei Leviti è un'elezione in rappresentanza: « Ecco, io ho scelto i Leviti tra gli Israeliti al posto di ogni primogenito che nasce per primo dal seno materno tra gli Israeliti; i Leviti saranno miei, perché ogni primogenito è mio » ( Nm 3,12 ).

La rappresentanza è così qui doppia: una tribù sta a rappresentare le dodici tribù, e il singolo levita sta a rappresentare i singoli primogeniti di tutte le tribù, al punto che per ogni primogenito in soprannumero devono venir offerti « cinque sicli » ( Nm 3,47 ).

L'elezione in rappresentanza degli stati sacerdotali è dunque tanto generica quanto individuale.

E se il popolo nel suo insieme è stato chiamato fuori dalle nazioni pagane e solo perché la sua è una vocazione simbolica viene pensato come una nazione accanto alle altre, così la simbolica della chiamata diventa più stretta e profetica nella più ristretta elezione al sacerdozio, giacché la tribù di Levi non può « ricevere parte alcuna ne possesso ereditario nella nazione ».

« Io sono la tua parte e il tuo possesso in mezzo agli Israeliti » ( Nm 18,20 ).

Se così la vocazione dei sacerdoti e dei leviti sta a metà tra una vocazione generale e una personale, prevalendo però ancora l'aspetto generale, in quanto essi fanno parte dei chiamati a motivo di una appartenenza alla tribù, è vero invece che per quanto riguarda i giudici, i re e i profeti è una chiamata del tutto personale quella che giunge ad essi.

Essi vengono cioè scelti, per rendere visibile la totale libertà della chiamata di Dio, non solo, ad esempio, dalla tribù di Levi, come « i più eletti » di tra quelli che erano « maggiormente eletti », bensì vengono presi apparentemente a caso da ogni tribù, classe, professione ed età.

In questo Dio fa divenir consapevole a Israele anche la relatività della sua stessa vocazione, giacché Egli può suscitare profeti e sapienti persino di tra i pagani, come Balaam e Giobbe.

Le vocazioni speciali sono quelle più rappresentative.

Di per se stesse esse hanno ancor meno senso che l'esistenza del popolo di Israele, esse sono, secondo tutto il loro essere, nient'altro che missione al popolo.

« Va' dove io ti mando e annuncia ciò che io ti dico! » ( Ger 1,7 ).

Le loro azioni e passioni sono simboliche; esse sono sciarade viventi date da decifrare al popolo, vive rappresentazioni delle promesse di Dio, buone e cattive, su di lui.

E non è colpa loro se la loro predicazione resta inascoltata, se « Gerusalemme uccide i profeti e lapida quelli che le sono stati inviati » ( Mt 23,37 ), se le loro predizioni riecheggiano inascoltate e le loro ammonizioni battono l'aria.

Così infatti essi divengono prefigurazione dell'eletto Figlio di Dio, la cui missione naufraga nell'inutilità e nel fallimento: « Io dissi: Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze » ( Is 49,4 ).

Ma proprio attraverso questo spreco delle più preziose energie divine, questo spargere il sangue più puro, la missione si adempie al di là di ogni aspettativa: « È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele.

Ma io ti renderò luce delle nazioni, affinché tu porti la mia salvezza fino all'estremità della terra! » ( Is 49,6 ).

Così nel chiamato da Dio il Vecchio Testamento trapassa tout court nel Nuovo, e le vecchie forme della chiamata vengono trasferite in quelle nuove.

L'aspetto formale dell'edificio rimane: il popolo eletto, chiamato a uscire dal peccato, diventa la Chiesa, quale esser chiamati alla santità, alla comunione con Cristo, alla gloria della Redenzione ( 1 Pt 1,15; 2 Pt 1,3; Gal 5,8; 1 Ts 2,12 ecc. ).

Il sacerdozio levitico, al quale si doveva « esser chiamati da Dio come Aronne » ( Eb 5,4 ), dopo essersi concentrato nell'unità del sacerdozio di Cristo si dispiega nuovamente nella gerarchia ecclesiastica, che conserva la stessa collocazione intermedia fra la forma di vocazione più generale e quella più personale; la vocazione profetica finisce col passare agli Apostoli e alle vocazioni personali ( che seguono gli Apostoli ) di sequela personale nello stato dei consigli.

E anche se la funzione di immagine prefigurativa di Israele si adempie nella « verità » della Chiesa, così anche la Chiesa rimane tuttavia sulla terra il corpo di Cristo che soffre insieme al Capo in rappresentanza per il Regno compiuto, il « Vangelo eterno » ( Ap 14,6 ), che viene atteso solo per « quando avrà luogo il compimento, allorché Egli consegnerà il Regno a Dio Padre » ( 1 Cor 15,24 ).

Così come « Israele è cosa sacra al Signore, la primizia del suo raccolto » ( Ger 2,3 ), nel concetto di primizia essendo però inclusa la pienezza del raccolto che seguirà, così Cristo, il Redentore di tutti, è « risorto come il primogenito di coloro che risuscitano dai morti » ( 1 Cor 15,20 ) e inaugura la schiera delle missioni e rappresentanze definitive.

I redenti nella Chiesa sono « primogeniti fra le sue creature » ( Gc 1,18 ), devono rappresentarle e attirarle alla salvezza col loro sacrificio e la loro preghiera.

E in modo speciale i vergini sono « acquistati di tra gli uomini come primogeniti per Dio e per l'Agnello » ( Ap 14,4 ), cosicché riconducendo a casa la creazione al Padre sorge questa triplice graduazione: « Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, ( … ) quando tutto gli sarà stato sottomesso » ( 1 Cor 15,23-24.28 ).

Ma « il dono delle primizie » è lo Spirito Santo ( Rm 8,23 ), che viene distribuito nelle missioni, e che nei cuori dei figli di Dio sospira con gemiti inesprimibili aspettando la piena redenzione, assumendo il gemito della creazione nei già redenti figli di Dio e portandolo in rappresentanza davanti a Dio ( Rm 8,21-23-26 ).

Come dunque la Chiesa rappresenta il mondo, così il prete rappresenta la comunità ministerialmente, e l' « Apostolo » la rappresenta personalmente.

Il prete deve offrire il sacrificio del Signore in rappresentanza per tutti, l' « Apostolo » deve prestare « ciò che ancora manca alle sofferenze di Cristo nella sua carne, in rappresentanza per il Corpo di Cristo che è la Chiesa » ( Col 1,24 ), deve persino nel suo spirito prestare in rappresentanza ciò che gli può venir partecipato delle sofferenze spirituali del Signore: « Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne da testimonianza nello Spirito Santo: ( … ) Vorrei essere io stesso anatema, separato da Cristo al posto dei miei fratelli! » ( Rm 9,1-3 ).

In questo, dunque, la chiamata alla santità non è mutata nel passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento: essa è chiamata nella grazia della compartecipazione della grazia, e perciò è chiamata a portare le colpe in rappresentanza.

È un esser chiamati fuori dal mondo per un più efficace invio nel mondo.

Tuttavia il carattere della chiamata in tutti i suoi gradi è mutato in una maniera rimarchevole nel passaggio dal Vecchio al Nuovo Testamento, poiché con l'apparire del Figlio nella carne la chiamata divenne non tanto ancor più personale, quanto piuttosto ancor più legata alla comunità.

La chiamata rivolta ai Giudei, in quanto chiamata in un popolo visibile - che con una rigorosa separazione dai popoli pagani confinanti ( fino alla guerra senza pietà contro di loro ) doveva raffigurare la sua santità di popolo messo a parte -, sottolineava molto più fortemente il momento negativo della missione, mentre l'aspetto positivo rimaneva riservato al tempo messianico promesso: solo allora il grande compito del popolo nei confronti del mondo dei pagani sarebbe stato da adempiere e il senso ultimo dell'elezione si sarebbe svelato.

In corrispondenza a ciò anche il compito di rappresentanza dei sacerdoti e dei leviti restava fermo quasi del tutto, in base al suo carattere visibile, nel legale adempimento del servizio cultuale, mentre il senso più intimo dei sacrifici presentati rimaneva ancora velato nel nascondimento del sacrificio di Cristo che era ancora soltanto promesso.

La chiamata e la missione dei profeti si esauriva completamente in un incarico determinato, esattamente delimitato: le parole che il profeta doveva proclamare, le azioni che doveva eseguire, erano materialmente circoscritte, e la missione acquistava così una ristretta finitezza, quale corrispondeva al rapporto fra il Signore Dio e gli uomini suoi servitori nell'Antico Testamento.

Poiché ancora mancava il Mediatore, entrambi stavano ancora l'uno di fronte all'altro senza mediazione, il Signore che impartiva gli incarichi e il servo che li eseguiva.

Non c'era ancora l'inserimento dell'eletto nella partecipazione a dar forma alla missione, la personale educazione all'interno dell'incarico, la possibilità dell'inviato di conferire espressione a questo incarico con una propria adulta responsabilità nello Spirito Santo.

Mancava ancora l'Eucaristia, che fa inabitare nell'inviato la stessa missione del Figlio.

Mancava la possibilità di riconoscere nel prossimo lo stesso Figlio di Dio e di equiparare così la dedizione alla missione divina con la dedizione al tu umano.

Mancava l'effusione nei cuori dell'Amore di Dio, che rende vivibile la chiamata stessa come inaudito arruolamento nell'opera dell'amore che si riversa « fino all'ultimo » ( Gv 13,1 ) e rende vivibile il seguire la chiamata come un venir inseriti nel flusso del servizio al medesimo amore e venir sparsi e diffusi insieme ad esso.

Tutto era ancora come trattenuto, come lasciato intravvdere per abbozzi e da dietro i veli, sebbene tutto era già presente e quindi l'obbedienza nei confronti della chiamata divina nel popolo, per i sacerdoti e per i profeti, poteva essere altrettanto radicale quanto per i cristiani e i santi del Nuovo Testamento.

Perciò in definitiva i due Testamenti si trovano insieme senza graduazioni: come i ventiquattro anziani dell'Apocalisse ( Ap 4,4 ), i quali sono eletti nello stesso numero dall'Antico e dal Nuovo Testamento, per cantare tanto il canto antico che ha udito Isaia ( Ap 4,8 ) quanto il « canto nuovo » ( Ap 5,9 ) all'agnello immolato.

Tutta la sequenza di gradi della chiamata sinora descritta si muove espressamente all'interno dell'ordine della grazia.

Sono rispettivamente chiamate del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, che è allo stesso tempo il Dio di Gesù Cristo, non invece chiamate del Dio creatore come tale, in quanto egli si manifesterebbe in maniera mediata nei suoi ordinamenti creaturali.

La selezione delle vie umane all'interno degli ordinamenti puramente naturali e delle « professioni », come ad esempio la scelta della carriera di medico o di architetto, ma anche la scelta dello stato matrimoniale o di un determinato partner per il matrimonio non può valere come oggetto di una scelta divina e di una chiamata divina nello stesso senso delle forme di elezione sinora descritte.

La chiamata ad una missione di grazia è un atto dell'amore di Dio che sceglie personalmente, un atto di preferenza unica e speciale, che non si lascia ordinare in nessuna categoria mondana, sebbene osservato dall'esterno abbia questo in comune con la selezione naturale, che anch'esso, in gradi analoghi, fonda uno stato di vita.

Certo gli eventi della sfera naturale sottostanno alla provvidenza divina, e ciò che il cristiano ed ogni uomo aperto in qualche modo alla Grazia in essi vive può fargli riconoscere ad ogni passo la cura amorosa del Padre divino.

Se egli nella preghiera è in consonanza di sentimenti con Dio e riceve con obbedienza e gratitudine ciò che questi gli dona, accetterà anche la sua professione nel mondo e il suo partner del matrimonio come speciale dimostrazione d'amore di Dio.

Facendo questa o quella scelta, adempirà il volere di Dio nella sua vita e potrà vivere ogni giorno sotto la conduzione della sua grazia.

Ciò che però si deve chiamare in senso vero e proprio « chiamata di Dio » si distacca sempre da una sfera nella quale questa chiamata non risuona; e la sfera da cui la più generale chiamata di Dio, che colloca nello stato della Chiesa in generale, si distacca è costituita esattamente dagli ordinamenti della natura.

Certo ci sono all'interno di questi ordinamenti fenomeni che recano in sé un'analogia con la chiamata divina.

Ci sono per esempio forme di ispirazione poetica, di « entusiasmo », che non sono senza somiglianza con forme di ispirazione soprannaturale o di esperienza mistica di Dio all'interno di una missione vera e propria.

Ma questi fenomeni sorgono in virtù di forze e combinazioni di circostanze della « comune madre » natura ( Sir 40,1 ).

Ci sono casi in cui l'incontro con una donna appare così carico di destino da recare in sé il carattere di una eterna predestinazione e da avvicinarsi alla spiegazione quasi di una comune preesistenza.

Ma le disposizioni scritte nelle stelle, le ore leggibili dagli astri, sono però nell'insieme solo un'immagine del piano provvidenziale di Dio che non è afferrabile da alcun oroscopo e da alcuna conoscenza dei nessi cosmici o intuizione di procedimenti parapsicologici.

Questo piano provvidenziale Dio lo rivela in una trascendenza impossibile a calcolarsi, nella sua rivelazione in Cristo.

Questo soltanto è il « mistero del suo volere, che egli ci ha manifestato, il disegno che egli ha deciso di realizzare » ( Ef 1,9 ) e la cui rivelazione è toccata a Paolo ( Ef 3,3 ).

Per questo, prima che Tommaso d'Aquino ammettesse come possibile in certi limiti la possibilità dell'oroscopia e con ciò della conoscenza di determinanti cosmiche del nostro destino, i Padri della Chiesa si sono difesi così risolutamente contro la commistione di queste cose con la Rivelazione eterna e non vollero considerare la stella di Betlemme come un fenomeno oroscopico.

La scelta e la chiamata di Dio dovevano prima esser riconosciute in tutta la loro libertà dagli influssi sul destino propri degli ordinamenti naturali, prima di giungere alla secondaria idea che la libera scelta di Dio può servirsi anche delle determinanti naturali, per così dire incarnarsi in esse, senza inferiore legame, ma per sovrana discrezione.

Se si vuol giungere sino in fondo a quest'idea, allora bisogna dire che nulla impedisce di mettere a servizio della vera e propria scelta di Dio tutta quanta la previsione naturale, come Dio lascia che essa manifesti il suo influsso anche per via di cause seconde, di influssi planetari, storico-tradizionali ed ereditari.

Poiché infatti come Dio è uno solo, Creatore e redentore, e come l'Antico Testamento del Padre e il Nuovo del Figlio sono insieme soltanto un unico eterno Patto del Dio trinitario con l'umanità, così anche la previsione naturale e quella soprannaturale formano un'unità, nella quale « tutto concorre al bene per quelli che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno » ( Rm 8,28 ).

Tutta la previsione naturale diventa per essi trasparente alla chiamata di Dio, la quale si ripercuote attraverso tutto, fin dentro alle piccolezze di cui è fatta la vita quotidiana.

E tuttavia questa chiamata non viene per questo mutata nella sua essenza.

Essa rimane chiamata ad uscire dal mondo per entrare nella Chiesa, ad uscire dalla comunità per entrare nel sacerdozio o nello stato dei consigli.

Come chiamata alla Chiesa in generale essa è chiamata ad una vita cristiana, e questa chiamata si ripercuote su tutta la configurazione che un cristiano darà alla sua vita matrimoniale e professionale nel mondo.

Essa sarà il magnete che da agli ordinamenti mondani nella sua vita la polarizzazione cristiana.

Sarà l'idea cristiana della missione a tenergli davanti agli occhi il senso e il criterio della scelta allorché si tratterà di scegliere i mezzi e le vie mondane.

Essa non sarà però di per sé chiamata in un ordinamento mondano.

La scelta cristiana dello stato di vita non può quindi, a rigor di termini, venir rappresentata così come se colui che compie la scelta dovesse accertarsi se la chiamata di Dio lo destina allo stato matrimoniale o allo stato sacerdotale o allo stato dei consigli.

Nella sua scelta egli non si trova davanti a due chiamate di ugual valore.

Visto cristianamente, egli si trova soltanto davanti all'aut-aut tra chiamata comune alla vita cristiana ( alla quale normalmente farà seguito la decisione per lo stato matrimoniale ) e chiamata speciale allo stato sacerdotale o dei consigli.

Ed egli sarà chiamato alla vita nel matrimonio, quando non gli sarà partecipata una chiamata speciale.

Nelle sue « Regole circa gli atteggiamenti ecclesiali » Ignazio mette in risalto questa chiara graduazione: « Bisogna lodare espressamente gli ordini religiosi, la verginità e la continenza, e il matrimonio non tanto come uno di questi.

Lodare i voti religiosi di obbedienza, di povertà e castità, e di altre perfezioni di supererogazioni.

Ed è da notare che, siccome il voto riguarda le cose che tendono alla perfezione evangelica, nelle cose che da essa si allontanano non si deve fare voto, come ad esempio di diventare mercante o di sposarsi » ( Eserc. Nr 356-357 ).

Ciò che in questa formulazione teoretica può forse sembrare duro diventa semplice e chiaro se si guarda alla prassi della vita cristiana.

Nessun cristiano sano, non stravagante per i suoi pregiudizi, dirà mai di sé che egli ha scelto lo stato matrimoniale a motivo di una scelta divina, una scelta che sarebbe paragonabile alla scelta e alla chiamata che riconosce in sé o sente colui che è chiamato a esser prete o alla sequela personale nello stato dei consigli.

Colui che sceglie il matrimonio avrà semplicemente non trovato nella sua anima quella elezione speciale, e sceglierà lo stato matrimoniale con la miglior buona coscienza di questo mondo, senza sentirsi per questo imperfetto, ma anche senza vantarsi perciò di aver scelto una via divina speciale.

Egli obbedirà semplicemente all'universale volontà di Dio verso la sua creatura: « Figlio mio, ( … ) cerca in tutto il paese un campo fecondo e semina fiducioso il tuo seme » ( Sir 26,20 ).

Piuttosto un artista che sente in sé una vocazione veramente « divina » potrebbe rinviare all'esempio di Bezalel, del quale Dio dice a Mosè: « Vedi, io ho chiamato per nome Bezalel ( … ) l'ho riempito di spirito divino, perché abbia sapienza, intelligenza e senso artistico in ogni genere di lavoro, per concepire progetti e realizzarli in oro, argento e rame, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno e compiere ogni sorta di lavoro.

Allo stesso tempo gli ho dato per compagno Oholiab ( … ) e nel cuore di ogni altro artista ho infuso saggezza, perché possano eseguire quanto ti ho comandato » ( Es 31,1-6 ).

Si può qui certamente dire che si tratta di una singolare assunzione in servizio da parte di Dio di professioni mondane per la costruzione della tenda sacra, che inoltre questa elezione di professioni mondane per un santuario terreno è specificamente veterotestamentaria, poiché in effetti la tenda antica non è « quella vera », ma solo una « immagine adombrante » ( Eb 8,2-5 ), che è destinata a passare quando giunge la vera adorazione in spirito e verità ( Gv 4,23 ).

Ma questa risposta non soddisfa del tutto.

A partire dalla vocazione di Bezalel diventa senza dubbio chiaro qualcosa che all'interno del popolo eletto e quindi anche della Chiesa non si lascia afferrare altrimenti che come una rappresentazione analoga della vera e propria chiamata che fonda uno stato di vita.

Non abbiamo forse visto che tutto ciò che accade a chi è stato scelto per diventar prete e a chi vive nello stato dei consigli è finalizzato al di fuori di sé ed è rappresentativo per la comunità e per i credenti singoli al suo interno?

Così la stessa cosa vale anche per la chiamata.

Il dono di intelligenza e senso artistico nello spirito divino corrisponde nell'Antico Testamento a quella realtà cristiana che Paolo chiama i carismi, e che può essere un compimento per grazia, donato da Dio, e un'assunzione in servizio delle capacità e abilità naturali.

Fra gli ordinamenti mondani e la grazia della Redenzione non si apre un abisso, ma ognuna di queste possibilità mondane può ricevere il suo compimento che discende dall'alto, donato da Dio, per il bene della Chiesa e del mondo redento.

Così per esempio la sapienza di Salomone non è puramente trascendente, ma una sapienza che « passa di generazione in generazione nelle anime sante » ( Sap 7,27 ), anzi è immanente all'intera creazione ( Sap 7,24 ) e adatta tutte le leggi della natura ai suoi relativi bisogni come un materiale flessibile ( Sap 16,20-26; Sap 19,18-19 ), una sapienza che si incarna non solo nella del tutto quotidiana saggezza dei detti della vita terrena, bensì persino nella vera e propria scienza naturale: « Dio infatti mi ha concesso la conoscenza infallibile delle cose, per comprender la struttura del mondo e la forza degli elementi, il principio, la fine e il mezzo dei tempi, l'alternarsi dei solstizi e il susseguirsi delle stagioni, il ciclo degli anni e la posizione degli astri, la natura degli animali e l'istinto delle fiere, i poteri degli spiriti e i ragionamenti degli uomini, la varietà delle piante e le proprietà delle radici.

Tutto ciò che è nascosto e ciò che è palese io lo so, poiché mi ha istruito la sapienza, artefice di tutte le cose » ( Sap 7,17-21 ).

La Rivelazione conosce dunque una penetrazione soprannaturale, teologica, di tutte le scienze terrene senza eccezione: cosmologia e astronomia, fisica, biologia e farmacologia, botanica e zoologia, storia, psicologia e altre scienze dello spirito.

Tutte queste scienze, in quanto naturali, non sono chiuse in sé, ma governate dalla sapienza divina, la quale « per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa.

È un'emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell'Onnipotente, ( … ) un riflesso della luce perenne, uno specchio della bontà di Dio » ( Sap 7,24-26 ); uno spirito che si comunica solo all'umile, all'orante, e che è l'ombra anticipatrice del Figlio di Dio che si avvicina, « nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza » ( Col 2,3 ).

« Poiché in Lui tutto è stato fatto, le cose nei cieli e quelle sulla terra, le cose visibili e quelle invisibili » ( Col 1,16 ).

Per questo non è strano, bensì prevedibile, che ogni arte e scienza terrena che si chiude in se stessa e rifiuta ogni apertura alla sapienza soprannaturale, la quale come « ogni buon regalo e ogni dono perfetto » discende dall'alto ( Gc 1,17 ), ultimamente può diventare soltanto stoltezza, poiché ad ogni dono naturale che Dio da a un uomo corrisponde come compimento un carisma di grazia.

Questo appartiene in una specie di naturalezza ( poiché oramai Dio ha deciso di fondare la creazione in vista della riconciliazione in Cristo ) all'impianto naturale, che senza questo compimento rimane un'opera incompiuta.

E a nessuno che chieda nella preghiera questo compimento della sua opera terrena Dio lo negherà: « Pregai, e mi fu data l'intelligenza; implorai, ed entrò in me lo spirito della sapienza » ( Sap 7,7 ).

Ed ebrei e cristiani pregano insieme: « Rafforza l'opera delle nostre mani, sì, dona vigore all'opera delle nostre mani! » ( Sal 90,17 ).

Questo compimento per grazia e questa assunzione in servizio da parte di Dio della professione mondana può di nuovo avere forme e gradi diversi.

Può essere un'irradiazione moderata, per così dire indiretta, di una benedizione della Grazia su di un'opera esistenziale terrena, come ad esempio nell'operare di uno scienziato; può essere la esteriore presa a servizio di una professione mondana ai fini del Regno di Dio, come nel caso della professione di un medico, di un giurista o di un giornalista; può essere però anche una assai intima richiesta dell'insieme delle capacità naturali di un uomo, come nel caso di Bezalel, che diventa qui prefigurazione delle grandi vocazioni cristiane creative d'arte.

Simili prese a servizio, che colgono di sorpresa l'uomo come una sacra possessione e gli fanno consumare la sua vita e i suoi sentimenti per un'arte esercitata realmente come servizio divino - dove egli forse rimane celibe e la sua vita personale diventa una catena di situazioni impossibili e di sofferenza -, a simili « vocazioni », che hanno certo la loro origine in un talento naturale, ma dispiegano manifestamente la loro necessaria tendenza ad un rapporto con la « sapienza divina », non si vorrà negare un'autentica analogia con le vocazioni ecclesiali al sacerdozio e allo stato dei consigli.

Questo vale tanto più in quanto, come abbiamo visto, anche il sacerdozio possiede un naturale ancoramento nella vita comunitaria umana, per cui non è fuor di via pensare che ci possa essere qualcosa come una predisposizione naturale e tipica attitudine al sacerdozio.

Lo stato sacerdotale si rivelerebbe allora ancora una volta come una specie di centro e di punto d'incrocio tra un talento puramente o prevalentemente naturale, come quello delle vocazioni mondane, e una vocazione che è puro dono di grazia, senza alcun punto di riallacciamento naturale, come nel caso della chiamata alla sequela di Cristo nella vita secondo i consigli.

Il sacerdozio potrebbe allora venir visto come il caso più alto a partire dalla natura: idoneità e inclinazione naturale insieme ad una pietà comunemente cristiana ed ecclesiale potrebbero bastare - a partire dal soggetto - per un'esistenza sacerdotale.

Tuttavia questo caso, considerato a partire dal caso normale di vocazione sacerdotale, sarebbe soltanto il limite più basso permesso, poiché alla predisposizione naturale verrà di norma ad aggiungersi la chiamata di grazia di Dio chiaramente intesa, come corrisponde al tipico carattere di grazia intrinseco allo stato sacerdotale tanto nel Vecchio quanto nel Nuovo Testamento.

Certamente questa chiamata può assumere, come vedremo, le forme e i gradi di intensità più svariati, e non si lascia fissare in nessun tipo normativo.

In virtù di questa ampiezza di tensione il sacerdozio acquista una collocazione che rimane sospesa nel centro e impersona così l'analogia della chiamata e la sua costituzione suddivisa in gradi.

Così la chiamata può apparire complessa sotto un duplice punto di vista.

Da una parte una vocazione può realizzarsi a motivo del confluire di diversi elementi: alcune componenti naturali, come la predisposizione, l'inclinazione, l'impulso al dispiegamento delle energie e dei germi naturali, e alcune componenti puramente soprannaturali, tipiche dell'immediato esser chiamati da Dio.

Tra queste due schiere di componenti se ne possono infiltrare ancora altre: aiuto oppure ostacolo da parte dell'ambiente e delle circostanze esterne, valutazione e, nel caso del sacerdozio o della vita secondo i consigli, accettazione o rifiuto da parte dell'autorità ecclesiastica.

Questo complesso intreccio di diversi elementi non contraddice la possibilità che dall'insieme di una combinazione di circostanze possa e debba manifestarsi la semplice e chiara volontà di Dio su di una vita; in effetti questa volontà non ha bisogno di apparire di per sé come astratta, ma come concretizzata e incarnata in una molteplicità di dati mondani.

Tuttavia è già in anticipo visibile da questa tensione tra la chiamata di Dio « pura » e quella « mediata » e incarnata nel mondo che qui può esserci un focolaio di difficili questioni e conflitti.

Comunque questi possano esser risolti, è certo che ogni chiamata di Dio che decide di una vita ( che sia più o meno incarnata o pura ) si deve sempre chiarire nel senso di una inequivocabile certezza nel cuore di colui che sceglie, quando questi si avvia a compiere la sua scelta.

Ignazio formula a questo riguardo un'inequivocabile regola: ogni scelta che fonda uno stato di vita, « la quale viene da Dio, deve essere sempre pura e trasparente, senza commistione della "carne" o di qualche altra inclinazione disordinata.

Molti si ingannano su questo aspetto, facendo di una scelta storta o cattiva una vocazione divina » ( Eserc. Nr 172 ).

La somma delle componenti determinanti per la scelta ( carattere, ambiente, Chiesa, Dio ) deve nel suo insieme dare a riconoscere la chiara e trasparente volontà di Dio.

D'altra parte può questa volontà stessa nella sua chiarezza e trasparenza assumere ancora le forme più diverse, che sono del tutto indipendenti dalla complessità di cui si parlava prima.

Le vie di Dio con gli uomini sono così infinitamente varie e così uniche e personali che anche le forme della chiamata di Dio possono essere sempre nuove e diverse.

Se la prima molteplicità era paragonabile ad un cerchio composto di settori disuguali, ma in modo tale che l'intero cerchio rende l'intera volontà di Dio, la seconda molteplicità della chiamata la si potrebbe rappresentare figurativamente immaginando l'intero cerchio ogni volta colorato in modo diverso.

Di questa seconda differenziazione della rispettivamente intera chiamata dobbiamo ora parlare per prima, poiché essa si conserva in qualsiasi combinazione degli elementi.

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