La Trinità

Indice

Libro IV

Proemio

1.1 - Importanza della conoscenza di sé

Gli uomini sono soliti avere in grande stima la scienza del mondo terrestre e celeste;1 ma senza dubbio i migliori tra essi sono coloro che preferiscono la conoscenza di se stessi2 a questa scienza e l'anima che conosce anche la sua debolezza è degna di maggior lode che non quella che, senza averla presa in considerazione, si sforza di investigare le orbite degli astri o quella che già le conosce ma ignora quale via la conduca ( Sal 32,8 ) alla sua salvezza e alla sua sicurezza.

Ma colui che, stimolato dal fervore dello Spirito Santo, ha già gli occhi ben aperti verso Dio e, nell'amore di lui, è divenuto conscio della propria miseria e, volendo ma non potendo giungere fino a lui, guarda in se stesso alla luce di Dio e scopre se stesso ed ha così acquistato la certezza che la sua malattia è incompatibile con la purezza di Dio, questi prova dolcezza nel piangere e nel supplicare Dio che abbia più e più volte misericordia, fino a quando si liberi di tutta la sua miseria, e nel pregarlo con confidenza, dopo aver ricevuto per grazia il pegno della salvezza nel nome di suo Figlio, unico Salvatore e illuminatore dell'uomo.

Colui che è così indigente e conosce quella sofferenza, la scienza non lo gonfia, perché la carità lo edifica. ( 1 Cor 8,1 )

Infatti ha preferito una scienza ad un'altra scienza, ha preferito conoscere la sua debolezza piuttosto che gli ultimi confini del mondo,3 le fondamenta della terra, le sommità dei cieli.

Aggiungendo questa scienza ha accresciuto il dolore, ( Qo 1,18 ) il dolore del suo esilio che scaturisce dalla nostalgia della sua patria e del beato creatore di essa, il suo Dio. ( Eb 11,10-16 )

Signore, mio Dio, se gemo in mezzo a questo genere di uomini, in mezzo alla famiglia del tuo Cristo, fra i tuoi poveri, concedimi di saziare con il tuo pane gli uomini che non hanno fame e sete di giustizia, ( Mt 5,6 ) ma sono stati saziati e sono nell'abbondanza.

Sono stati saziati però dalle loro immaginazioni, non dalla tua verità, che respingono e fuggono per cadere nella loro vanità.

Certo io so per esperienza quante finzioni generi il cuore umano: e che cos'è il mio cuore se non un cuore umano?

Ma questa preghiera rivolgo al Dio del mio cuore: di non proferire in questa mia opera nessuna di quelle finzioni in luogo della solida verità, ma al contrario tutto ciò che vi potrà venire da parte mia, venga, sebbene io sia cacciato via dai tuoi occhi, ( Sal 31,23 ) e mi sforzi di ritornare da lontano per la via che Egli ha tracciato con l'umanità della divinità del suo Figlio unico, dal luogo da cui soffia su di me la brezza della sua verità.

In tanto di essa bevo, sebbene io sia mutevole, in quanto nulla di mutevole vedo in Dio, né per movimento spaziale e temporale come ne subiscono i corpi, né per movimenti puramente temporali e che hanno un qualcosa di spaziale, come nel caso dei pensieri dei nostri spiriti, né per movimenti puramente temporali senza neppure qualche immagine spaziale come nel caso di alcuni ragionamenti dei nostri spiriti.

Infatti l'essenza di Dio, ragione del suo essere, non ha assolutamente nulla di mutevole sia nell'eternità sia nella verità o nella volontà: perché in Dio eterna è la verità, eterna la carità, vera è la carità, vera l'eternità; amata è l'eternità, amata la verità.4

1.2 - Occorreva persuaderci quanto e quali Dio ci avesse amato

Dunque esiliati dalla gioia immutabile, non ne siamo tuttavia separati e gettati lontano al punto di rinunciare alla ricerca dell'eternità, della verità e della beatitudine anche in queste cose mutevoli ed effimere ( infatti non desideriamo né morire, né sbagliare, né essere inquieti ).

Per questo Dio ci ha mandato delle apparizioni adatte alla nostra peregrinazione per ricordarci che ciò che cerchiamo non è qui, ma che da qui si deve ritornare al principio dal quale veniamo, perché se noi non trovassimo in lui il nostro centro, non cercheremmo quaggiù quelle cose. ( Eb 11,13-15 )

E prima di tutto bisognava persuaderci di quanto fosse grande l'amore di Dio per noi, perché la disperazione non ci impedisse di innalzarci verso di lui. ( Gv 3,16; 1 Gv 3,1; Ger 48,26 )

Bisognava anche mostrarci in quale stato eravamo quando ci ha amato, affinché inorgogliendoci dei nostri meriti non ci allontanassimo di più da lui e non diventassimo più deboli nella nostra forza.

Così Dio ha agito nei nostri riguardi in modo che progredissimo invece per la sua forza e così la forza della carità trovasse la sua pienezza nella debolezza dell'umiltà.

È questo che si esprime nel Salmo in cui si dice: Una pioggia di benefici facesti cadere, o Dio, sulla tua eredità; era esausta, tu le rendesti la forza. ( Sal 68,10 )

Questa pioggia benefica non può significare che la grazia, la quale non è data in ricompensa ai nostri meriti ma concessa gratuitamente e per questo si chiama grazia: ce l'ha accordata infatti non perché ne fossimo degni, ma perché così gli è piaciuto.

Sapendo questo noi non confideremo in noi stessi e questo significa "essere esausti".

Ma Dio ci dà forza, lui che anche all'apostolo Paolo ha detto: Ti basta la mia grazia, perché la forza trionfa nella debolezza. ( 2 Cor 12,9 )

Bisognava dunque convincere l'uomo della grandezza dell'amore di Dio per noi e dello stato in cui eravamo quando ci ha amato; di questa grandezza perché non disperassimo, di questo stato perché non insuperbissimo.

Ecco come l'Apostolo spiega questo passo così essenziale: Ma Dio dà prova del suo amore verso di noi proprio in questo che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.

Molto più dunque ora che siamo giustificati dal suo sangue, saremo salvi dall'ira per mezzo di lui.

Se noi infatti, pur essendo nemici, siamo stati riconciliati con Dio, mediante la morte del suo Figlio, molto più ora che siamo riconciliati saremo salvi nella sua vita. ( Rm 5,8-10 )

E in un altro passo: Che diremo dunque di tutto questo? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?

Egli che non ha risparmiato il suo proprio Figlio ma lo ha consegnato per tutti noi, come non sarà disposto a darci ogni cosa insieme con lui? ( Rm 8,31-32 )

Ora ciò che viene comunicato a noi come un fatto compiuto, era presentato ai giusti dell'antichità come un avvenimento futuro affinché essi pure, per mezzo della stessa fede, umiliati fossero resi deboli e resi deboli ricevessero forza.

1.3 - Il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato fatto, è la luce degli spiriti

Poiché dunque non vi è che un Verbo di Dio, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose, che è verità immutabile, in lui come in loro principio e senza mutamento sono tutte le cose contemporaneamente, non solo quelle che esistono ora in tutto l'universo creato ma anche quelle che sono esistite ed esisteranno.

In lui non sono passate né future ma presenti, e tutte le cose sono vita e tutte non sono che una, o meglio vi è una sola cosa e una vita unica.

Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui in modo che tutto ciò che è stato creato in esse sia in lui vita e vita increata, perché in principio il Verbo non fu fatto, ma il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio e tutte le cose per mezzo di lui sono state fatte, ( Gv 1,3-4 ) e non sarebbero state fatte tutte le cose per mezzo di lui, se egli non fosse esistito prima di tutte le cose e non fosse increato.

Fra le cose che sono state fatte per mezzo di lui anche il corpo, che non è vita, non sarebbe stato fatto per mezzo di lui, se nel Verbo, prima di essere fatto, non fosse stato vita.

Infatti ciò che è stato fatto già era vita in lui e non una vita qualunque: anche l'anima è vita del corpo, ma anch'essa è vita creata, perché mutevole, e per mezzo di chi è stata fatta, se non per mezzo dell'immutabile Verbo di Dio?

Infatti tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto.

Dunque ciò che è stato fatto già era in lui vita e non una vita qualunque, ma la vita era luce degli uomini; luce evidentemente delle anime razionali, che distinguono gli uomini dagli animali,5 e che perciò li fanno uomini.

Non è dunque una luce materiale che illumina i corpi sia risplendendo dal cielo sia provenendo da fuochi accesi sulla terra, luce che non è propria ai corpi umani ma che si estende anche ai corpi delle bestie, inclusi i più piccoli vermi.6

Tutti questi esseri infatti vedono questa luce.

Ma quella vita era luce degli uomini, e non posta lontano da ciascuno di noi, perché in essa viviamo, ci muoviamo e siamo. ( At 17,27.28 )

2.4 - Per l'Incarnazione siamo resi capaci di attingere la Verità

Ma la luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno compresa. ( Gv 1,5 )

Queste tenebre sono le anime insensate degli uomini, accecate dalle perverse concupiscenze e dalla mancanza di fede.

Per curarle e risanarle il Verbo, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose, si è fatto carne ed abitò tra noi. ( Gv 1,14 )

La nostra illuminazione è una partecipazione del Verbo, cioè di quella vita che è luce degli uomini. ( Gv 1,4 )

Ma noi eravamo veramente inadatti e ben poco idonei a tale partecipazione per la immondizia dei peccati.

Dovevamo dunque essere purificati.

Ora la sola purificazione dei peccatori e dei superbi è il sangue del Giusto, ( Mt 27,24 ) e l'umiltà di Dio; affinché, per poter giungere alla contemplazione di Dio che per natura noi non siamo, venissimo purificati da Dio stesso fattosi quello che per natura siamo e quello che per il peccato non siamo.

Infatti non siamo Dio per natura, siamo per natura uomini, non siamo giusti per il peccato.

Dunque Dio, fattosi uomo giusto, ha propiziato Dio per l'uomo peccatore.

Non c'è infatti rapporto tra peccatore e giusto, ma tra uomo e uomo.

Dunque sommando a noi la sua umanità uguale alla nostra, ha sottratto a noi la disuguaglianza della nostra peccaminosità e, fattosi partecipe della nostra mortalità, ci ha reso partecipi della sua divinità.7

Giustamente la morte del peccatore, proveniente da una condanna necessaria, è stata tolta in virtù della morte del Giusto, proveniente da una libera misericordia, con il rapporto tra lui e noi di uno a due. ( 2 Pt 1,4 )

Infatti questo rapporto ( o, se, per dir meglio, chiamiamo concordanza, o proporzione, o accordo la relazione che c'è tra l'uno e il due ) è di grandissima importanza in ogni unione o, se si preferisce, in ogni composto naturale.

Mi riferisco, ora mi viene in mente la parola, all'accordo che i greci chiamano άρμονία.

Non è qui il luogo di dimostrare l'importanza dell'accordo tra il semplice e il doppio, accordo che si costata in noi in tutta la sua importanza e ci è così naturalmente innato ( chi l'ha posto in noi se non Colui che ci ha creato? ) che nemmeno gli ignoranti non possono non avvertirlo quando cantano o ascoltano gli altri cantare.

È questo rapporto che fa concordare i suoni acuti e gravi e, se qualcuno se ne discosta, non offende penosamente le regole della scienza, che la maggior parte ignora, ma l'orecchio.

Per provare però ciò che affermo sarebbe necessario un lungo discorso; invece può apparire manifesto allo stesso senso dell'udito ad opera di qualcuno che sappia suonare il monocordo regolare.

3.5 - "Uno" in Cristo corrisponde a "due" in noi per la nostra salvezza

Per il momento urge spiegare, per quanto Dio lo concede, come tra noi e Gesù Cristo, Signore e Salvatore nostro, esista il rapporto di due a uno e come esso contribuisca alla nostra salvezza.

Noi certamente, e nessun cristiano ne dubita, siamo morti nell'anima e nel corpo: nell'anima per il peccato, nel corpo per il castigo del peccato e perciò anche nel corpo a causa del peccato. ( Rm 8,10; Ef 2,1-5; 1 Pt 2,24 )

Queste nostre due realtà, l'anima e il corpo, necessitavano di una medicina e di una risurrezione per rinnovare in meglio ciò che era stato mutato in peggio.

Ora la morte dell'anima è l'empietà, e la morte del corpo è la corruttibilità, che causa la separazione dell'anima dal corpo.

Come infatti l'anima muore quando Dio l'abbandona, così il corpo muore quando l'abbandona l'anima: la prima perde così la saggezza, il secondo la vita.

L'anima risuscita grazie alla penitenza e in un corpo mortale ha inizio una vita nuova ad opera della fede con la quale si crede in Colui che ha giustificato l'empio, ( Rm 4,5 ) vita che viene sviluppata con la virtù e fortificata di giorno in giorno ( 2 Cor 4,16 ) nella misura in cui sempre più l'uomo interiore si rinnova. ( Ef 4,22 )

Il corpo invece, che è come l'uomo esteriore, quanto più è lunga questa vita presente, sempre più si corrompe per l'età, per le infermità, per tante afflizioni fino a che giunge all'ultima che tutti chiamano morte.

La sua risurrezione è differita fino alla fine, quando anche la nostra giustificazione sarà compiuta in maniera ineffabile. ( Rm 4,25 )

Allora infatti saremo simili a lui perché lo vedremo com'è. ( 1 Gv 3,2 )

Ora invece, fin quando il corpo corruttibile pesa sull'anima, ( Sap 9,15 ) e la vita dell'uomo sulla terra è una continua lotta, nessun vivente viene giustificato davanti a lui, ( Gb 7,1; Sal 142,2 ) in paragone con quella giustizia che ci eguaglierà agli Angeli e con quella gloria che si manifesterà in noi. ( Lc 20,36; Rm 8,18 )

Ora, per distinguere la morte dell'anima dalla morte del corpo, perché dovrei ricordare troppo numerose testimonianze, dato che il Signore nel Vangelo ha dato in un solo passo un principio comodo a tutti per discernere l'una dall'altra?

Egli dice: Lascia che i morti seppelliscano i loro morti. ( Lc 9,60; Mt 8,22 )

Per morti da seppellire intendeva i corpi, ma per seppellitori morti intendeva coloro che sono morti nell'anima a causa dell'empietà della loro incredulità, come coloro cui si rivolge l'apostrofe dell'Apostolo: Svegliati, o dormiente, e sorgi dai morti e ti illuminerà Cristo. ( Ef 5,14 )

Una specie di morte lamenta l'Apostolo anche quando parlando della vedova dice: Quella che trascorre l'esistenza in mezzo alle delizie, pur vivendo è morta. ( 1 Tm 5,6 )

Si può dire che l'anima ormai pia, dopo esser stata empia, è risuscitata dalla morte grazie alla giustizia della fede ( Rm 4,13; Rm 1,17 ) e vive.

Per quanto riguarda il corpo non soltanto è detto che morirà per la separazione futura dell'anima ma è anche detto morto per l'estrema debolezza della carne e del sangue, quando l'Apostolo afferma: Il corpo è morto a causa del peccato ma lo spirito è la vita in grazia della giustizia. ( Rm 8,10 )

Questa vita è opera della fede perché il giusto vive di fede. ( Rm 1,17 )

Ma qual è il seguito del passo? Che se lo spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti renderà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. ( Rm 8,11 )

3.6 - Per la nostra duplice morte il Salvatore ha dato la sua unica

Ecco dunque che per togliere le nostre due morti il Salvatore ha pagato con una sola morte da parte sua e per procurare ambedue le nostre risurrezioni ha preposto e proposto come sacramento ed esempio una sola risurrezione da parte sua.

Infatti non fu né peccatore, né empio in modo da aver necessità di rinnovarsi secondo l'uomo interiore, ( 2 Cor 4,16 ) come se fosse uno spirito morto, e da essere richiamato alla vita della giustizia, come ravvedendosi.

Ma rivestito di carne mortale, non morendo che per essa, non risuscitando che per essa, per essa sola si mise in armonia con noi per la morte e la risurrezione, facendosi in essa sacramento dell'uomo interiore e modello di quello esteriore.

Al sacramento del nostro uomo interiore si riferisce, per significare la morte della nostra anima, quel gemito di Cristo non solo nel Salmo, ma anche sulla croce: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ( Sal 22,1; Mt 27,46; Mc 15,34 )

A questo grido corrisponde bene la parola dell'Apostolo: Resi persuasi di questo, che l'uomo vecchio nostro è stato crocifisso con lui, affinché fosse distrutto il corpo del peccato in modo da non essere più schiavi del peccato. ( Rm 6,6 )

Crocifissione dell'uomo interiore sono i dolori della penitenza e le torture salutari della continenza.

Una morte questa che sopprime la morte del peccato in cui Dio non ci lascia.

E così questa croce distrugge il corpo del peccato, perché non offriamo più le nostre membra al peccato come strumenti di iniquità, ( Rm 6,13 ) poiché, se l'uomo interiore si rinnova di giorno in giorno, ( 2 Cor 4,16 ) è evidente che prima di rinnovarsi era vecchio.

È nell'interno che si realizza ciò che lo stesso Apostolo dice: Spogliatevi dell'uomo vecchio e rivestitevi del nuovo. ( Ef 4,24 )

E ne spiega il significato più avanti: Perciò lasciate la menzogna e ciascuno parli secondo la verità. ( Ef 4,25 )

Dove ci si spoglia della menzogna se non nell'interno perché abiti sul santo monte di Dio, colui che parla secondo la verità, nel profondo del suo cuore? ( Sal 15,1-3 )

Chela risurrezione del corpo del Signore interessi anche il mistero della nostra risurrezione interiore appare dal passo in cui Cristo, dopo la risurrezione, dice alla donna: Non toccarmi; io non sono ancora asceso al Padre mio. ( Gv 20,17 )

Con questo mistero concorda la parola dell'Apostolo: Se dunque siete risuscitati con Cristo, cercate le cose dell'alto dov'è il Cristo, assiso alla destra di Dio; gustate le cose dell'alto. ( Col 3,1-2 )

Non toccare Cristo, se non dopo l'ascensione al Padre, significa non avere per Cristo un attaccamento sensibile. ( 2 Cor 1,12 )

Ad esempio poi della morte del nostro uomo esteriore ( 2 Cor 4,16 ) vale la morte corporale del Signore, perché è soprattutto con una tale passione che ha incoraggiato i suoi servi a non temere coloro che uccidono il corpo ma non possono uccidere l'anima. ( Mt 10,28 )

Per questo dice l'Apostolo: Da parte mia completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo. ( Col 1,24 )

E ad esempio della risurrezione del nostro uomo esteriore vale la risurrezione del corpo del Signore, perché egli disse ai discepoli: Palpate e vedete; uno spirito non ha ossa e carne come vedete che io ho. ( Lc 24, 39 )

Ed uno dei suoi discepoli, inoltre, tastando le sue cicatrici esclamò: Signore mio e Dio mio. ( Gv 20,24.28 )

Nella evidente e totale integrità della sua carne apparve chiara la verità di ciò che aveva detto ai discepoli per incoraggiarli: Nemmeno un capello del vostro capo perirà. ( Lc 21,18 )

Perché infatti, dopo aver detto dapprima: Non toccarmi, non sono ancora asceso al Padre mio, ( Gv 20,17 ) si lascia poi toccare dai suoi discepoli prima di ascendere al Padre, se non per suggerire in un caso il sacramento dell'uomo interiore e per offrire nell'altro un modello di quello esteriore?

O ci sarà per caso qualcuno così stolto e così nemico della verità da avere il coraggio di dire che prima dell'ascensione si lasciò toccare dagli uomini, ma dalle donne soltanto dopo l'ascensione? ( Gv 20,17-27 )

È dunque al modello della nostra futura risurrezione corporale, offerto anticipatamente nel Signore, che si riferiscono queste parole dell'Apostolo: Prima di tutti Cristo, poi quelli che sono di Cristo. ( 1 Cor 15,23 )

In questo passo si tratta precisamente della risurrezione del corpo, a proposito della quale dice anche: Trasformerà il corpo della nostra umiliazione, rendendolo simile al corpo della sua gloria. ( Fil 3,21 )

Perciò l'unica morte del nostro Salvatore ha rimediato alle nostre due morti.

L'unica sua risurrezione ha donato a noi due risurrezioni, avendo concorso il suo corpo come opportuna medicina, in ambedue le direzioni della morte e della risurrezione, come sacramento per il nostro uomo interiore e come esempio per il nostro uomo esteriore.

4.7 - Il rapporto di semplice a doppio ha la sua fonte nella perfezione del numero sei

Questo rapporto del semplice al doppio ha la sua origine nel numero tre.

Uno più due fanno tre e la somma dei numeri di cui ho parlato dà come totale sei: infatti uno più due, più tre, fanno sei.

Il numero sei si chiama perfetto perché si compone delle sue parti.

Comprende in sé le tre frazioni seguenti: la sesta parte, la terza parte, la metà, né vi si può trovare un'altra frazione di valore determinato.

Dunque la sesta parte di sei equivale a uno, la terza a due, la metà a tre.

Ora uno più due, più tre, danno come totale sei.

Tale perfezione è sottolineata dalla Sacra Scrittura, soprattutto per il fatto che Dio in sei giorni ha compiuto la sua opera, ( Gen 1,1-31; Gen 2,1-2; Es 20,11-31 ) e nel sesto giorno fu fatto l'uomo ad immagine di Dio. ( Gen 9,6; Gen 5,1; Sap 2,23; Sir 17,1 )

Inoltre nella sesta età del genere umano il Figlio di Dio venne ( 1 Gv 3,8 ) nel mondo e si fece Figlio dell'uomo per restaurarci ad immagine di Dio. ( Gen 1,27 )

Noi ci troviamo ora in questa età, sia che si attribuiscano mille anni ad ogni età, sia che ci si basi sui periodi veramente storici ed insigni ricordati dalla Sacra Scrittura.

La prima età va da Adamo a Noè e la seconda fino ad Abramo.

Poi, secondo la cronologia dell'evangelista Matteo, da Abramo a Davide, da Davide fino alla deportazione in Babilonia, ( Mt 1,17 ) e da questo avvenimento al parto della Vergine.

Queste ultime tre età unite alle due precedenti fanno cinque.

Perciò la nascita di Cristo ha inaugurato la sesta, quella in cui ci troviamo attualmente, e che durerà fino alla fine sconosciuta dei tempi.

Troviamo il numero sei con il suo simbolismo storico, anche se con distribuzione tripartita contiamo un periodo prima della Legge, un secondo sotto la Legge, un terzo sotto la grazia. ( Rm 5,13; Rm 6,14 )

In quest'ultimo periodo riceviamo il sacramento della rigenerazione, cosicché alla fine dei tempi, rinnovati totalmente dalla risurrezione della stessa carne, saremo guariti da ogni malattia non solo dell'anima ma anche del corpo. ( Ef 4,23; 2 Cor 4,16 )

Per questo si può vedere una figura della Chiesa in quella donna guarita e raddrizzata dal Signore e che prima era stata curvata dall'infermità sotto le catene di Satana. ( Lc 13,11-16 )

Di questi nemici occulti si lamenta la voce del Salmista: Hanno curvato la mia anima. ( Sal 57,7 )

Ora, erano diciotto anni che questa donna era ammalata e perciò tre volte sei anni. ( Lc 13,16 )

D'altra parte il numero dei mesi di diciotto anni è eguale al cubo di sei, cioè a sei moltiplicato per sei, moltiplicato ancora per sei.

Proprio prima di questo episodio il Vangelo parla di quell'albero di fico la cui misera sterilità datava da tre anni.

Il vignaiolo pregò di lasciarlo ancora per quell'anno: se avesse dato frutto, bene, altrimenti sarebbe stato tagliato. ( Lc 13,6-9 )

Ora da una parte con i tre anni si ritrova la precedente distribuzione tripartita, e dall'altra parte il numero di mesi di tre anni è uguale al quadrato di sei, cioè sei per sei.

4.8 - Importanza del numero sei nel computo dell'anno

Basato sul numero sei è anche l'anno, in quanto si compone di dodici mesi interi di trenta giorni ciascuno ( tale era il mese che seguivano gli antichi attenendosi alle fasi lunari ): esso deve al numero sei la sua importanza.

Infatti il valore che ha il sei nel primo ordine dei numeri, cioè in quello delle unità ( dall'uno al dieci ), lo ha il sessanta nel secondo ordine, quello delle decine ( dal dieci al cento ).

Perciò sessanta giorni sono la sesta parte dell'anno.

Di conseguenza se si moltiplica il numero sessanta ( che nella seconda serie, quella delle decine, ha lo stesso valore del sei ) per il numero sei ( che fa parte della prima serie ), si ha sei volte sessanta, cioè trecentosessanta giorni, che fanno dodici mesi interi.

Però gli uomini mentre contano il mese secondo la rivoluzione della luna, calcolano l'anno in base all'osservazione della rivoluzione solare, per cui mancano cinque giorni e un quarto perché il sole completi il suo corso e chiuda l'anno.

Infatti quattro quarti fanno un giorno, che si è obbligati a intercalare ogni quattro anni ( e si ha allora l'anno bisestile ) per non sconvolgere il calendario.

Anche se consideriamo questi cinque giorni e un quarto, vediamo che il numero sei è di grandissima importanza.

Questo per due ragioni: primo perché, come spesso succede, la parte si prende per il tutto e allora non abbiamo più cinque giorni ma sei, essendo questo quarto di giorno contato per un giorno intero; secondo perché i cinque giorni sono la sesta parte del mese e la quarta parte del giorno consta di sei ore.

Infatti il giorno intero, ivi compresa la notte, si compone di ventiquattro ore, la cui quarta parte, cioè la quarta parte del giorno, è appunto di sei ore.

Così nello svolgimento dell'anno il numero sei è quello che ha maggiore importanza.

5.9 - Il numero sei nella formazione del corpo di Cristo

Non senza ragione nella formazione del corpo del Signore, simboleggiato dal tempio distrutto dai Giudei e che Cristo si riprometteva di restaurare in tre giorni, il numero sei rappresenta un anno.

Gli risposero infatti i Giudei: Sono stati necessari quarantasei anni per edificare il tempio. ( Gv 2,20 )

Ora quarantasei volte sei fa duecentosettantasei, che è il numero di giorni contenuto in nove mesi e sei giorni, tempo che si computa come se fossero dieci mesi per le donne incinte.

Non che tutte le donne arrivino nella loro gravidanza a nove mesi e sei giorni, ma perché il corpo del Signore ha impiegato tale numero di giorni per giungere a termine perfettamente costituito, come risulta da una antica tradizione alla quale si attiene l'autorità della Chiesa.

Si crede che sia stato concepito il venticinque marzo, che è anche il giorno della sua passione.

Così il sepolcro nuovo in cui fu sepolto, nel quale nessun morto fu posto ( Gv 19,41; Lc 23,53 ) né prima né dopo, rassomiglia al seno della Vergine in cui fu concepito e nel quale nessun mortale fu generato. ( Lc 1,31; Mt 1,21; Is 7,14 )

D'altra parte secondo la tradizione nacque il 25 dicembre.

Ora dal giorno della concezione a quello della nascita si hanno duecentosettantasei giorni, numero uguale a quarantasei volte sei.

In quarantasei anni fu costruito il tempio, ( Gv 2,20 ) perché nel numero di giorni corrispondente a quarantasei per sei si formò completamente il corpo del Signore, distrutto dalla morte inflittagli e da lui risuscitato dopo tre giorni.

Infatti diceva questo del suo corpo, ( Gv 2,21 ) come lo prova la testimonianza così chiara e forte del Vangelo: Come Giona stette tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo starà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. ( Mt 12,40 )

Indice

1 Crisippo, Fragm. 35;
Cicerone, De fin. bon. mal. 2, 12, 37;
De off. 1, 43, 153; 2, 2, 5;
Tuscul. 4, 26, 57; 5, 3, 7;
De orat. 1, 49, 212
2 Cicerone, De fin. bon. mal. 3, 22, 73; 5, 16, 44;
Tuscul. 1, 22, 52;
De leg. 1, 22, 58; 23, 61
3 Lucrezio, De rer. nat. 2, 73
4 Agostino, Confess. 7, 10, 16; De civ. Dei 11, 28
5 Varrone, Antiquit., in Agostino, De civ. Dei 7, 23
6 Sallustio, Catil. 1, 2
7 Agostino, Enarr. in Ps. 53, 6