Povero

IndiceA

Sommario

I. Significati di "Povero" e "Ricco" nella Bibbia:
1. L'AT:
        a. Libri storici,
        b. Libri profetici,
        c. Libro dei Salmi,
        d. Libri sapienziali;
    2. Il NT:
        a. I vangeli,
        b. Gli scritti apostolici.
II. La pastorale patristica:
    1. Esemplarità evangelica;
    2. Amore verso il povero;
    3. Povertà interiore.
III. La prassi monastica:
    1. Segni di povertà:
        a. Austerità,
        b. Mendicità,
        c. Comunione di beni,
        d. Lavoro;
    2. Le accentuazioni del Vat II.
IV. Il magistero recente.
V. Teologie contemporanee:
    1. La "teologia della speranza";
    2. La "teologia della liberazione".
VI. Conclusione: in favore del povero:
    1. La negazione;
    2. Il valore.

La cultura e la coscienza attuali palesano un'acuta sensibilità verso il povero, quasi conclusione di una analisi sociologica e tentativo di riparare ingiustizie precedenti.

Il povero è balzato in primo piano sulla spinta di una filosofia antropocentrica: egli viene considerato come uomo in situazione subumana.

L'analisi marxista ha individuato nella massa dei poveri una classe sociale in conflitto permanente con la classe dei ricchi, la quale dovrebbe subire la sconfitta.

La classe dei poveri è come un immenso arcipelago, popolato di persone e di gruppi in situazione stabile o parziale di povertà: il proletariato, la massa operaia, le donne, i bambini, gli anziani, i malati, gli analfabeti e i semiculturizzati, gli emarginati, i popoli sottosviluppati…, cioè coloro che in genere sono fuori da uno schema di benessere, di sviluppo e di autonomia.

In concreto, ben pochi sfuggono alla povertà.

Al presente la povertà è sentita in termini sociologici e politici, cioè come condizione da ribaltare e da scansare secondo paradigmi mutuati soprattutto dall'economia.

I modelli di società del benessere e del consumismo catturano l'interesse dell'individuo e del gruppo, lasciando spazi ristretti al movimento spontaneo di promozione e alienando la coscienza da valori tradizionali irrinunciabili.

Il boom economico è stato l'eutanasia della metafisica, dell'etica e dell'ascetica; la crisi conseguente può consentire il recupero della spiritualità in vari settori, non ultimo quello della povertà evangelica.

Illuminazioni indispensabili derivano dalla bibbia e dalla tradizione ecclesiale.

I - Significati di "Povero" e "Ricco" nella Bibbia

Il linguaggio biblico preferisce espressioni lessicali concrete piuttosto che concetti astratti.

Perciò il vocabolo povero prevale sull'astratto povertà ( e analogamente per i vocaboli "ricco" e "ricchezza" ).

Esigenze di sinteticità suggeriscono di enucleare la globalità delle concezioni e delle descrizioni bibliche suddivise secondo il genere letterario dei vari libri.

Nell'arco bimillenario della storia e del pensiero biblici la valutazione nei confronti del ricco e del povero ha subito un'evoluzione sostanziale fino al capovolgimento della preferenza precedente.

Il binomio povero-ricco è inscindibile e i due termini si esplicitano a vicenda.

1. L'AT

Gli autori vetero-testamentari puntano di frequente verso il povero la propria attenzione.

Povero e povertà sono sentiti sulla scia di una evoluzione culturale, negli ambiti sociale e spirituale, partita da presupposti per i quali la figura del povero e la situazione di povertà venivano prese in considerazione con disagio o con compassione, e approdata ad una valutazione lusinghiera, almeno nella visuale dello spirito.

a. Libri storici

I testi biblici che tramandano la storia primitiva di Israele ( seppure di composizione non contemporanea allo svolgersi di essa ), sono quelli contenuti nel Pentateuco, il complesso letterario basilare della cultura vetero-testamentaria.

Limitando a questi la lettura, si rintraccia quale filo conduttore centrale l'interpretazione della ricchezza come benedizione di Dio ( Gen 24,34-35; Gen 26,12-14; Gen 30,29-30; Dt 28,1-14 ); ricchezza che consisteva principalmente nella prole numerosa, nell'abbondanza di averi ( in particolare bestiame, durante il nomadismo ), nella salute: il possesso di ciò era segno di ricompensa da parte di Dio ad un suo servitore fedele e approvazione visibile di un retto comportamento religioso.

Il messaggio spirituale di simile interpretazione è interiore: elogia l'uomo giusto, non l'uomo ricco come tale, perché prima e oltre la ricchezza egli possiede la rettitudine del pensiero e della condotta.

Durante l'itineranza di Israele lungo il deserto in attesa della conquista di Canaan, la ricchezza come benedizione è garantita a tutto il popolo, nel quale non esistono classi sociali di ricchi e di poveri ( ma solo le tribù, come difesa dinastica e poi patrimoniale ): la "terra promessa" è ubertosa ( Dt 8,6-10 ), è dono di Dio ( Gs 1,1-11 ).

Condizione per ricevere la ricchezza-benedizione è la fedeltà collettiva.

Il Pentateuco presenta la povertà come una posizione sfortunata, un incidente.

L'atteggiamento verso il povero si espleta e si esaurisce in un'azione sociale di protezione tramite alcune leggi favorevoli ( le anticipazioni in Lv 19,10; Dt 14,28-15,18 [ tra esse, geniale è la soluzione dell'anno giubilare ]; Dt 24,12-15 ) e alcuni divieti di violare il diritto del povero ( Es 23,6 ).

Il povero è termine di una solidarietà generosa ( Dt 15,7-11 ).

Le motivazioni appariscenti sono di carattere sociale, non ancora spirituale.

b. Libri profetici

Nelle testimonianze letterarie dei profeti si accentua la disparità di valutazione del binomio ricco-povero.

La ricchezza è un rischio, e si comincia a considerarla - indubbiamente per la delusione di esperienze prevaricanti - come tentazione di obliare Dio ( Os 13,15 ), come veicolo dell'idolatria ( Is 2,7-8 ). Alcuni profeti operano una palese "scelta di classe", prendendo le difese del povero verso cui è compiuta ingiustizia, e stigmatizzando ogni abuso che porta alla discriminazione e al sopruso.

Si condanna lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo ( Am 2,6-8; Am 4,1-3; Am 8,4-6 ).

Si denunciano violenze, ingiustizie, rapine ( Is 3,14-15; Is 5,11-12; Ez 22,29 ), sfruttamento di vedove e orfani, le categorie sociali allora più indifese ( Is 1,23; Is 10,1-2; Ger 5,28; Ger 7,6; Ger 22,3; Zc 7,10 ).

Si combatte l'abuso di potere e la prevaricazione della giustizia ( Am 5,7; Is 10,1-2; Ger 22,13-17 ).

Si bolla la frode nel commercio ( Am 8,5-6; Os 12,8 ), l'accaparramento e la speculazione immobiliare e terriera ( Is 5,8; Mi 2,2 ).

Si smaschera l'ingiustizia e l'abuso del rapporto padrone-servo ( Ger 34,8-22 ).

I profeti censurano come peccaminose queste azioni perché sono infedeltà alla parola di Dio e all'alleanza.

Esse scardinano il caposaldo sociale del collettivismo primitivo, letto dalla bibbia con intonazione teologale, e stanno all'origine di una ingiusta situazione di povertà ( oltre che di ricchezza ).

Perciò, il ricco ingiusto è punito da Dio.

In tal modo i profeti evidenziano l'intenzione di Dio che sceglie la difesa del povero.

Anche esplicitamente essi annunciano che Dio ama il povero, chiunque egli sia ( Is 49,13; Is 66,2 ).

Il messia è presagito come colui che annuncerà ai poveri l'evangelo ( Is 61,1; Is 11,4; Lc 4,18 ), nel quale consiste la loro salvezza.

c. Libro dei Salmi

Concettualmente i salmi sono contemporanei ai profeti.

Vi si riscontrano pensieri che definiscono la ricchezza ( successo, benessere, prosperità, abbondanza ) come dono di Dio e ricompensa alla fedeltà ( Sal 1,3; Sal 112,1-3 ).

Ma si fa in prevalenza una lettura spirituale della povertà e una meditazione orante sulla figura del povero.

Il povero è l'umile che conduce un'esistenza moralmente sana, opposta a quella dei potenti e degli arroganti ( Sal 10 ); è il sofferente che pone fiducia in Dio nonostante la solitudine, l'ostilità, la miseria, le prove ( Sal 22; Sal 69; Sal 86 ); è il peccatore che sente bisogno del perdono di Dio ( Sal 51 ).

Tale povertà fidente si caratterizza per la serenità di cuore che si esprime nel canto di gratitudine: « Io mi glorio nel Signore, ascoltino gli umili e si rallegrino… questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo libera da tutte le sue angosce » ( Sal 34,3.7 ).

Gli autori dei salmi - per esperienza personale o come traduzione contemplativa di una realtà - proclamano l'esistenza di un Dio liberatore e salvatore del povero, e la speranza in lui.

I poveri, quindi, attirano l'attenzione benevola del Signore.

La povertà non è condizione ambita, dalla quale anzi si conta di evadere; però, finché perdura si cerca di valorizzarla almeno come stimolo alla fede.

Non la povertà, ma la capacità di tradurla in occasione spirituale è un valore.

L'uomo provato invoca il Signore: « Tendi l'orecchio, rispondimi, perché io sono povero e infelice » ( Sal 86,1); « non dimenticare mai la vita dei tuoi poveri » ( Sal 74,19b ).

Il salmista è certo che il Dio fedele esaudisce l'implorazione, sicché « i poveri mangeranno e saranno saziati » ( Sal 22,27 ).

La liberazione del povero verrà realizzata soprattutto dal messia ( Sal 72,2.4.12-14.16 ).

d. Libri sapienziali

La posizione culturale dei libri sapienziali - nel loro insieme e perfino all'interno di qualcuno - circa il binomio ricco-povero non è univoca ne coerente.

Anche se la tonalità di queste pagine è sapienziale, meditativa e didattica, gli aforismi di esse non rappresentano mai una speculazione pura, non paiono mai filosofemi: hanno il tono, piuttosto, di generalizzazioni dedotte dall'osservazione esistenziale.

Se l'autore di Pr 14,20 afferma: « Il povero è odioso anche al suo amico », non intende teorizzare l'ostilità: egli rileva un dato dell'esperienza, lasciando a ciascuno la scelta di un comportamento consequenziale.

La ricomposizione delle antilogie può avvenire a livello di lettura panoramica di tutto il messaggio biblico intorno alla povertà.

La situazione del povero è misera ( Gb 24,2-12; Sir 31,4 ), e può essere conseguenza di malizia ( Pr 13,18; Pr 21,17 ).

La povertà talvolta sopravviene per causa propria, in particolare per pigrizia ( Pr 6,6-11; Pr 10,4-5; Pr 29,19b; Sir 31,4 ).

La situazione del ricco, invece, è agevole.

La ricchezza procura vantaggi: preferenze ( Sir 10,30 ), onori, felicità e sicurezza ( Sir 44,1-8 ), pace ( Sir 44,6 ), amicizie ( Sir 13,21-23; Pr 14,20 )…

La ricchezza può essere risultato di operosità ( Pr 10,4b; Pr 11,16b ), vigilanza ( Pr 20,13 ), onestà ( Sir 31,8-9 ).

Essa è un bene, ma non in assoluto, perché esistono altre cose migliori della ricchezza ( Pr 15,16; Pr 16,8; Pr 22,1; Sir 30,14-16; Sap 7,7-14; Gb 28,15-19, ecc. ).

Inoltre, la morte non si ferma davanti al ricco, al quale non viene risparmiata la sorte comune a motivo della consistenza dei suoi beni ( Qo 5,14-15; Sir 11,18-19 ).

Infine, anche la ricchezza resta una cosa, un'abbondanza esteriore che non modifica la qualità interiore dell'individuo: infatti, il ricco può essere stolto e il povero sapiente ( Pr 19,1-22; Pr 28,6; Qo 4,13 ).

Norma di saggio comportamento è il giusto equilibrio tra ricchezza e povertà ( Pr 30,8-9 ).

Anche secondo i libri sapienziali esistono le categorie dei ricchi e dei poveri, talvolta in conflitto perché gli uni opprimono gli altri ( Sap 2,10 ), talvolta alla ricerca di un incontro mediato da Dio ( Pr 22,2 ).

È palese, tuttavia, la preferenza data al povero.

Essere povero non è castigo di Dio, semmai è una prova per la fedeltà: la parabola di Giobbe si colloca come uno spartiacque che cambia direzione all'assioma "ricchezza segno certo di rettitudine e di compiacenza divina" e "povertà segno certo di malizia e di riprovazione divina".

Si denunciano, anzi, l'iniquità del ricco e i suoi soprusi nei confronti del povero ( Sir 13,3; Sap 2,10-14 ); si mette in ridicolo la cortigianeria che lo circonda ( Sir 13,21-23 ).

Non è rara la preferenza esplicita degli agiografi nei confronti dei poveri.

Nel contesto del sociale di solito essi sono vittime; nell'orizzonte dello spirituale essi appaiono quasi privilegiati, perché Dio si prende cura di loro ( Sir 21,5 ).

Proprio Dio difende il diritto del povero: « non depredare il povero, perché egli è povero, e non affliggere il misero in tribunale, perché il Signore difenderà la loro causa » ( Pr 22,22-23; Pr 23,10-11 ).

E Dio stesso si identifica nel povero: « Chi fa la carità al povero fa un prestito al Signore che gli ripagherà la buona azione » ( Pr 19,17 ); « Chi deride il povero offende il suo creatore » ( Pr 17,5 ).

Queste dichiarazioni mettono le basi dell'interpretazione sacramentale del povero.

La visione spirituale della figura del povero e l'interpretazione ascetica della povertà sono embrionali in questi testi.

Maggiore spessore morale ha l'atteggiamento che si assume verso di loro.

Non si giunge, infatti, a proclamare "beati" i poveri, ma si dichiara « beato chi ha pietà degli umili » ( Pr 14,21 ).

Appassionata è l'esortazione alla solidarietà con l'indigente ( Sir 29,8-13 ).

L'elemosina, oltre che gesto efficace, è segno di un animo religioso: « Per tutti quelli che la compiono, l'elemosina è un dono prezioso davanti all'Altissimo » ( Tb 4,11 e contesto ).

La visione sapienziale della storia propone il popolo stesso di Israele come simbolo di povertà, in particolare - come leggono le pagine sapienziali di Tobia, Giuditta ed Ester - quando esso è combattuto, deportato ed esiliato.

È allora che sopravviene il ravvedimento e il riconoscimento dell'infedeltà e del bisogno di Dio, cioè la scoperta d'una povertà totale.

2. Il NT

La continuità del messaggio dall'AT al NT procede in direzione verticale.

L'idea neo-testamentaria del povero tende a privilegiare questa figura, presentando un ideale di povertà" che raccoglie situazioni eterogenee e le trasferisce unificate nell'ambito dello spirituale.

a. I vangeli

L'annuncio evangelico gravita attorno al Cristo.

Egli è povero.

La povertà di Gesù non è mancanza di beni, perché abita in una casa di proprietà di suo "padre" Giuseppe ( Mt 2,23 ); esercita un mestiere remunerato ( Mc 6,3 ); il suo gruppo è sostenuto dal sussidio di amici, principalmente donne facoltose della borghesia ( Lc 8,1-3 ); possiede - dettaglio non insignificante - un abbigliamento più che decoroso ( Gv 19,23)…

La sua povertà equivale a libertà ( Mt 8,20 ), mitezza e umiltà di cuore ( Mt 11,29 ), disponibilità alla volontà del Padre ( Gv 4,34 ) fino alla morte in croce ( Fil 2,8 ), accettazione cosciente della sofferenza.

Il Cristo da ricco si è fatto povero per arricchire altri ( 2 Cor 8,9 ).

La scelta di questo stile singolare di povertà è una dimostrazione messianica, culminante nell'appropriazione dei sentimenti del servo di Jahve analizzati nel Sal 22, che Gesù prega morendo ( Mt 27,46; Mc 15,34 ).

Nella dimensione messianica la povertà di Cristo è adempimento delle profezie, cioè adesione esistenziale al progetto di Dio: in esso non mancano tessere di povertà, come la persecuzione politica e l'esilio ( Mt 2,14-15; Os 11,1 ), la semplicità che vela la maestà ( Mt 21,4-5; Is 62,11; Zc 9,9-10 ), il tradimento da parte di un apostolo e amico ( Gv 13,18; Sal 41,10; Lc 22,48 ), la spogliazione totale ( Gv 19,24; Sal 22,19; Is 52,13-53,12 ).

Il Signore è povero in vita, glorioso nella morte ( Gv 19,27-28; Zc 12,10; Sal 69,22 ), esaltato nella sua risurrezione ( At 2,30-36 ).

Gesù è povero perché come messia evangelizza i poveri ( Mt 11,5; Lc 4,18; Is 61,1 ) ai quali annuncia la salvezza.

Gesù è povero perché esprime solidarietà concreta con i poveri, fino a prendere sopra di sé i peccati del mondo ( Gv 1,29; Is 53,7.12 ).

Egli non disprezza i poveri, non li condanna, non li sfrutta, non li inganna con la demagogia: assume i loro sentimenti, condivide la loro ansia, riempie la loro attesa, li proclama "beati" ( Lc 6,20-21; Mt 5,3 ).

Dal punto di vista del maestro sono poveri i peccatori, i malati, gli indigenti, gli stranieri… ai quali rivolge una parola non di consolazione procrastinata ma di salvezza contemporanea, perché la sua voce e i suoi gesti - uniti alla fede del povero - riescono a migliorare quella situazione.

E poveri debbono essere i suoi discepoli, cioè totalmente disponibili al suo progetto.

Infatti, essi sono beati.

« Beati i poveri nello spirito » ( Mt 5,3 ) si può leggere come il proclama dell'interiorizzazione della povertà e si può così parafrasare: sono discepoli di Gesù ( "beati" è un aggettivo riservato ai seguaci ) coloro ai quali lo Spirito santo fa capire la povertà ( o, fa il dono di essere poveri ).

Lo Spirito santo, infatti, introduce i discepoli alla verità ( Gv 16,13 ) e distribuisce i carismi.

Perciò, condizione per seguire Cristo è farsi poveri.

Questa povertà significa fiducia in Dio ( Lc 12,22-24 ), attesa di salvezza da Dio ( Lc 18,9-14 ), rinuncia alle ricchezze ( Lc 14,33; Mt 19,16-22 ), libertà da esigenze e distacco ( Mt 6,24.33; Mt 10,5-15.37-39 ), coscienza della priorità e preziosità del regno di Dio ( Mt 13,44-46 ).

La predilezione di Gesù per i poveri si esprime anche nel suo messaggio di solidarietà verso di loro; una solidarietà che non si ferma all'impegno sociale, ma che lo assume e lo supera, diventando azione nel campo dello spirito soprattutto perché povertà è obbedienza all'evangelo di salvezza.

La carica rivoluzionaria dell'annuncio messianico sta in questa idea-forza.

Come Dt 15,11 prevedeva che i poveri non mancheranno mai, così Gesù ripete, rammaricandosi, la medesima costatazione ( Mt 26,11 ).

La sua parola non istituzionalizza lo status quo, ma mira a risvegliare nel discepolo lo sforzo di eliminare un disagio, una sofferenza, una indigenza attraverso la giustizia sociale ( Mt 23,23 ), la distribuzione della propria ricchezza ( Mt 19,21; Lc 12,33; Lc 19,8 ), l'elargizione generosa e purificatrice ( Mt 6,2; Lc 11,41; Lc 12,33-34 ), l'aiuto tangibile e realistico ( Mt 25,31-46 ) senza interruzione.

Così i poveri diventano gli alleati preferenziali dei discepoli di Cristo.

I poveri nella dimensione dell'evangelo sono sacramento.

In loro si cela e si serve - o si trascura - il Cristo medesimo ( Mt 10,42; Mt 25,40.45 ).

Essi simboleggiano, in alcune parabole, la realtà del regno celeste ( Lc 14,15-24; Lc 15,11-32; Lc 16,19-31 ).

I poveri costituiscono la riprova della fedeltà di Dio che promette loro, mediante la parola di Gesù, il regno dei cieli e contemporaneamente la soddisfazione della loro fame e sete ( Lc 6,20-23 ).

Altri personaggi dei vangeli testimoniano questa povertà: Giovanni Battista, Giuseppe, ( v. ) Maria di Nazaret

Maria è povera perché, come serva del Signore, preferisce la proposta di Dio al proprio progetto di vita ( Lc 1,38 ) e scopre che egli ha compiuto in lei grandi cose ( Lc 1,49 ).

L'indole riflessiva della fanciulla di Nazaret trova come cifra interpretativa della sua storia personale la tapeinosis ( o humilitas ), che è pacata docilità, umiltà dolce e dignitosa, disarmata e fiduciosa accettazione d'un ultimo posto: insomma, una povertà teologale interiorizzata.

Ella stessa palesa di trovarsi in questa situazione, che ha attirato lo sguardo di Dio suo salvatore ( Lc 1,47-48; 1 Sam 1,11 ), come è accaduto per gli altri poveri ( Lc 1,52 ) e per Israele come lei "servo" di Jahve ( Lc 1,54; Lc 1,38 ).

La madre di Gesù possiede circa la povertà idee che indubbiamente suo figlio ha raccolto nella casa di Nazaret.

Lungo tutti i secoli la misericordia dell'Onnipotente - proclama Maria ( Lc 1,46-55 ) - si rivolge verso coloro che hanno per lui santo timore: per meritare la misericordiosa alleanza di Dio non è sufficiente nutrire generici sentimenti di religiosità, ma bisogna essere umili e poveri teologalmen te, cioè d'una povertà e umiltà qualificate dalla fede e dalla speranza.

Verso costoro Dio dispiega la potenza del suo braccio per difenderli e sostenerli.

Coloro che tracciano orgogliose e segrete progettazioni; coloro che si innalzano ( o si lasciano innalzare ) sopra la testa degli altri; coloro che si sentono soddisfatti, cioè i ricchi, debbono abbandonare queste situazioni se vogliono salvarsi; gli umili e i poveri, invece, vengono da Dio rialzati e arricchiti.

Queste idee non mirano ad un rovesciamento delle classi sociali in conflitto, ma ad un superamento di esse tramite un messaggio dinamico che le disgrega dall'interno e che esige l'incontro di persone differenti che si riconoscono uguali, tutte sul medesimo piano ( l'immagine dell'abbassare e rialzare: Lc 1,52 ).

Ciò è opera di Dio che salva potenti e ricchi umiliandoli e facendo compier loro l'esperienza di povertà; e salva gli umili e i poveri facendo prender coscienza della loro dignità ( Lc 1,50-53 ).

Conseguente all'opzione di povertà, l'evangelo prende le distanze dal ricco - finché resta tale - e dalle ricchezze.

Queste sono un pericolo persistente in rapporto all'ascolto della parola ( Mt 13,22 ), alla costruzione del regno di Dio ( Mt 6,24; Lc 12,21; Lc 14,33 ), alla salvezza messianica medesima ( Mt 6,19-21; Mc 10,23-25 ), tanto che solo Dio può salvare il ricco, miracolosamente ( Mt 19,23-26; Lc 16,9 ).

Essere poveri come dono dello Spirito rende possibile il disinteresse per la ricchezza come capitale, esagerazione economica, possesso individuale, potere personale, cultura boriosa…

Essere poveri nello Spirito santo da la gioia di seguire Cristo in libertà; da la sicurezza che Dio ricolma il vuoto fatto in sé e attorno a sé.

b. Gli scritti apostolici

Il tessuto culturale sul quale si impianta la chiesa primitiva è l'evangelo di Gesù.

La comunità post-pentecostale di Gerusalemme visibilizza l'evangelo di povertà tramite la koinonia: comunione profonda nel cammino della fede e nelle soluzioni organizzative.

I discepoli di Gesù si denominano e sono "fratelli".

La comunione dei beni che volontariamente realizzano ne viene come conseguenza.

I cristiani della comunità non sono poveri, perché tra loro non vi era nessuno bisognoso; la loro povertà si interiorizza e diviene motivazione efficace per liberarsi dall'individualismo, mettendo ogni cosa a servizio della comunità e oltrepassando nei rapporti interpersonali il criterio gelido della giustizia, preferendo il dinamico ma più difficile principio del distribuire a ciascuno secondo la necessità ( At 4,32.34-35 ).

Le difficoltà, e ben presto, non mancano: furbizie ( At 5,1-11 ), disorganizzazione ( At 6,1 ), diaspore…

La nostalgia per questa soluzione di fraternità riaffiora in altre realizzazioni della vita ecclesiale primitiva, specialmente nella fedeltà ad evangelizzare la fraternità e nella prontezza a donare i carismi che si posseggono ( Rm 12,3-8 ) o una elemosina per la gioia del donare ( At 20,35 ) e come frutto di una generosità accesa da Dio ( 2 Cor 8,6-15 ).

I cristiani conoscono l'accettazione di una povertà dura: persecuzioni, impatto con il rigore implacabile della legge e l'intolleranza degli avversari, fallimenti, lavoro gravoso…

Anche in queste strettoie la gioia permane in essi ( At 5,41 ) tanto che la letizia, dono dello Spirito ( Gal 5,22 ), diventa un contrassegno della qualità evangelica della povertà.

Essa all'afflitto dà la capacità di essere sempre lieto, all'indigente la capacità di arricchire molti, a chi non possiede nulla la possibilità di avere invece tutto ( 2 Cor 6,1-10 ), proseguendo con lo stile di Cristo ( 2 Cor 8,9 ), il quale ha accettato la « stoltezza della croce » traducendola in « potenza di Dio» ( 1 Cor 1,18 ).

Le ricchezze possedute e apprezzate dai discepoli non sono ne oro ne argento, ma la potenza taumaturgica del nome di Gesù ( At 3,6 ), la forza della parola evangelica ( 1 Cor 1,5 ), la grazia e la bontà del Signore ( Ef 2,7 ) ad essi donate.

Essi sono poveri perché hanno il cuore aperto all'accettazione di questi doni per la salvezza quale la progetta Dio.

La ricchezza monetizzabile continua ad insospettire, perché resta un pericolo ( 1 Tm 6,9-10 ).

I ricchi rischiano di diventare malvagi e corruttori, come è accaduto anche nelle comunità cristiane ( Gc 2,5-7; Gc 5,1-6 ), nelle quali però si continua a ricercare l'uguaglianza in fraternità di fede ( Gc 1,9-11 ).

Se esiste una preferenza teorizzata, essa va verso il povero piuttosto che verso il ricco ( Gc 2,1-13 ).

Il capitalista, « ricco in questo mondo », viene esortato all'umiltà, alla generosità, alla fiducia non nell'incertezza degli averi ma in Dio che tutto dona in abbondanza perché se ne possa godere ( 1 Tm 6,17-19 ).

Nell'ideale della chiesa-fraternità il ricco dovrebbe essere una figura di transizione, non una classe definitiva: se egli è un autentico convertito all'evangelo, si espropria di ricchezze e di sicurezze per seguire, come un nomade dello spirito, la voce di Cristo che lo guida.

Infatti il povero è sacramento di Dio ( 1 Gv 3,16-17 ).

E poiché tutti i discepoli sono membra del corpo di Cristo ( 1 Cor 12,12-27 ) e abitacolo dello Spirito ( 1 Cor 6,19 ), tutti debbono diventare poveri perché possa rilucere il loro essere sacramento.

II - La pastorale patristica

Gli interventi letterari dei padri della chiesa sul tema del povero sono per la maggior parte di tonalità pastorale.

I contesti manifestano una preferenza verso situazioni esistenziali piuttosto che un interesse speculativo: badano alla concretezza del povero più che alle astrazioni sulla povertà.

Il povero ordinariamente è un "altro", un fratello in situazione anomala verso il quale il cristiano è invitato e perfino obbligato a intervenire con soccorrevole e, fattiva solidarietà.

1. Esemplarità evangelica

Il pensiero dei padri si innesta ai testi biblici, principalmente a quelli del NT.

La prassi ecclesiale è il punto di collegamento tra le impostazioni della chiesa post-pentecostale e le comunità sub-apostoliche: una prassi in perfetta continuità di ispirazione.

I primi scrittori dopo gli agiografi - i cosiddetti padri apostolici - intessono le loro riflessioni per corroborare i comportamenti dei fratelli di fede verso il povero con insistenza cristocentrica: il Signore Gesù ispira scelte di povertà e la condotta verso i poveri.

I commenti sui vangeli lumeggiano la povertà quando si imbattono in testi che stimolano riflessioni e suggerimenti.

La beatitudine della povertà è variamente interpretata.

S. Ambrogio ( 339/40-397 ), meditando su Lc 6,12-49, scrive: « Essa è la prima beatitudine perché è madre e generatrice di tutte le virtù ».

S. Leone papa ( fine sec. IV-461 ) nel sermone 95, intitolato Scala della beatitudine, interiorizza la povertà affermando che essa è « umiltà d'animo piuttosto che indigenza di beni ».

Analogamente s. Giovanni Crisostomo ( ca. 350-407 ), spiegando Mt 5,3: i poveri nello spirito « sono
gli umili e coloro che hanno un cuore contrito ».

E aggiunge un'annotazione nuova definendo come poveri « coloro che sono tremanti e timorosi davanti a Dio e che ascoltano con timore quanto egli dice ».

Anche parlando al popolo su Mt 19,16-26 egli torna a collocare la povertà nel raggio dell'evangelo: « Non basta disprezzare le ricchezze, ma è necessario anche aiutare e dar da mangiare ai poveri: ma soprattutto bisogna seguire Cristo, cioè compiere tutti i suoi comandi ».

L'evangelo dà una qualifica originale alla figura del povero, anche perché Cristo ha scelto la povertà.

Anche Maria di Nazaret è povera perché di « cuore umile […] e fiduciosa non in ricchezze transitorie, ma nella preghiera dei poveri », come si esprime s. Ambrogio nel De virginibus.

Nelle comunità sub-apostoliche perdura la soluzione ecclesiale della comunione dei beni.

Le testimonianze più antiche di questa prassi sono - nell'ambito dell'Oriente - la Didaché ( I sec. ), la Lettera a Diogneto ( prima metà II sec. ) e la Lettera dello Pseudo-Barnaba ( ca. 96/98 ), nella quale si legge questa esortazione: « Metterai ogni cosa in comune e non dirai "questo è mio": se nelle cose incorruttibili partecipate insieme, quanto più non dovete farlo nelle corruttibili? ».

Per l'Occidente c'è la voce di Tertulliano ( ca. 155 - dopo 220 ), il quale rivela nell'Apologeticum gli obiettivi della libera comunione dei beni, definita « deposito della pietà », che serve per sfamare i poveri e dar loro sepoltura, per soccorrere i giovani e le giovani che non hanno mezzi di famiglia, i servi diventati vecchi, i naufraghi e i prigionieri, cioè i più derelitti, e senza discriminazioni.

2. Amore verso il povero

Nella concretezza dell'esistenza e secondo l'esperienza dei contemporanei il povero si visibilizzava in una persona bisognosa, che l'evangelo esige di soccorrere.

L'amore verso il povero è un argomento morale e pastorale frequentissimo nella letteratura patristica.

Aiutare il povero non è solo un'esigenza sociologica, ma molto di più: è obbedienza all'evangelo, perché « i poveri sono fratelli di Cristo e fratelli nostri », come avverte il Crisostomo in un'omelia.

Tale aiuto si concretizza nel condividere i propri beni di consumo, principalmente nelle elemosine.

Anche la motivazione delle elemosine è evangelica: i cristiani si sentono vincolati a farle perché viene insegnato nell'evangelo del Signore, argomentava la Didaché.

Lo stesso testo esorta alla generosità nel dare, ma contemporaneamente invita all'accortezza: « Sudi la tua elemosina nelle tue mani fino a che non conosca a chi conviene dare » : non è istigazione all'avarizia, ma invito ad intelligenza vigile, ribadito anche in altri testi.

Una finalità che ridonda a vantaggio della vita spirituale di colui che compie l'elemosina è la penitenza.

S. Ambrogio, parlando su Elia e il digiuno, dice drasticamente: « Possiedi denaro? Riscatta con questo il tuo peccato ».

L'elemosina è un impegno di carità generalizzato.

Il vescovo di Milano ricorda, scrivendo sui Doveri dei ministri, che essa deve procedere dal senso di giustizia e secondo il realismo del povero e non già da vana gloria, e richiama a questo stile soprattutto i sacerdoti.

E aggiunge: « Bisogna soccorrere anche coloro che, allontanati dalla chiesa, sono privi del necessario ».

I poveri, dunque, sono persone verso le quali le comunità cristiane riversano il loro amore fattivo.

L'apologeta greco Aristide ( prima metà II sec. ) rende questa testimonianza: i cristiani « si amano tra loro, non disprezzano la vedova, salvano l'orfano, colui che possiede da senza mormorare a colui che non ha […]; se uno è schiavo o povero, digiunano due o tre giorni e il nutrimento che avevano preparato per sé glielo inviano, pensando che si rallegrino essi stessi allo stesso modo che loro erano stati chiamati alla gioia ».

Erma ( II sec. ), nell'ottavo precetto del suo Pastore, considera peccato grave disinteressarsi di colui che si trova nell'angustia.

La povertà altrui - quella dell'indigente, del sofferente, dell'insicuro, del bisognoso in genere - catalizza l'interesse operoso e molteplice al fine di alleviarne il disagio e possibilmente di liberarlo da situazione tanto precaria.

La letteratura patristica non si presta ad infondere rassegnazione inattiva a questo tipo di poveri, di solito costretti da circostanze sociali e da sventure a subire una condizione così dura.

Ad essi si prospettano alcuni punti di riferimento perché non svaniscano la fede e la speranza; la carità dei fratelli diventa segno tangibile dell'amore di Dio per essi.

La spiritualità dà un senso a chi subisce la povertà perché trova conforto attendendo sollievo e liberazione nella certezza che Dio continua ad amarlo, e a chi partecipa alla sofferenza del povero perché condivide la sua povertà come solidarietà con Cristo.

3. Povertà interiore

La povertà interiore ( o interiorizzazione della povertà ) richiede la partecipazione della coscienza ad una scelta libera.

L'egiziano Isidoro di Pelusio ( + ca. 435 ) in una lettera scrisse che la povertà volontaria ( oltre l'astinenza ) è il fondamento del regno di Dio.

L'umiltà ritorna come dimensione profonda della povertà interiore.

Lo Pseudo-Barnaba elogia l'umile del quale esorta a cercare la cordiale amicizia.

Di s. Clemente romano ( + 101 ) si tramanda questo scultoreo aforisma: « Cristo appartiene agli umili ».

Origene ( 185 - 253 ), commentando il vangelo di Luca, identifica l'umiltà con la giustizia, la temperanza, la fortezza, la sapienza.

La vera povertà è una dimensione che scaturisce dallo spirito.

Clemente alessandrino ( ca. 150-215/16 ) insegnava al suo popolo che essa è « denudare l'anima stessa e la volontà da tutte le passioni che sono radicate in queste, sradicare e gettare via dal proprio spirito tutto ciò che gli è alieno ».

Ma anche questa povertà interiore necessita di segni visibili.

Tra essi il più insistito è la rinuncia, il non possedere.

La rinuncia al mondo per la grazia della fede si concretizza nell'abbandono delle ricchezze e delle seduzioni, e ciò comporta accontentarsi di poco, del "pane quotidiano": così interpreta una frase del Pater s. Cipriano ( ca. 210 - 258 ).

La rinuncia, a sua volta, è un segno, soprattutto è una mediazione di libertà.

L'esortazione a liberarsi è rivolta a chiunque.

La libertà è un acquisto di valori: « Chi raggiunge la liberazione - dice la monaca Sindetica - patisce nella carne, ma nell'anima ha pace ».

Questa beatitudine raggiunge il vertice nel liberarsi dalle aspirazioni per puntare tutte le forze sul desiderio di Dio.

Lo spirito rivolto a Dio qualifica il proprio rapporto con la ricchezza o la povertà e dà alle realtà dell'esistenza una dimensione quasi escatologica.

« Unica ricchezza è la sapienza », cioè la visione teologica delle cose, ricorda sul finire del sec. II l'epitaffio di Pettorio.

Erma interpreta la povertà come un sentirsi stranieri sulla terra e quindi alieni dalla preoccupazione di acquistare beni e ricchezze.

Clemente alessandrino afferma: « Non costituisce nulla di grande ne di ammirevole l'essere del tutto privi di ricchezze senza pensare alla vita eterna » ( sermone sulla salvezza del ricco ).

I contesti patristici che dedicano qualche attenzione alla povertà non trascurano di mettere a fuoco la condizione del ricco.

Nei confronti di esso non esistono valutazioni omogenee; tuttavia, predomina una visione pessimistica.

In sintesi, si possono delimitare due filoni: uno esplicitamente negativo e preoccupato; uno possibilista nell'intravedere qualche valore o possibilità di valorizzazione anche nella ricchezza.

III - La prassi monastica

Il fenomeno monastico ( presente in diverse religioni, e nel cristianesimo denominato anche ( v. ) "vita consacrata" e più correntemente "vita religiosa" ) è apotaxis, cioè abbandono della propria situazione attuale per ritirarsi alla ricerca di Dio.

Una via obbligata e qualificante è la povertà.

S. Antonio abate ( ca. 250-365 ), iniziatore del monachesimo organizzato, si ritira dal mondo - si "converte" - udendo l'invito di Cristo alla povertà ascoltato nella lettura di Lc 14,26 e Lc 19,29.

S. Francesco d'Assisi ( 1181/82-1226 ) si "converte" all'invito alla povertà di Mt 10,9-11 e pone come regola della sua vita quella esortazione evangelica.

1. Segni di povertà

Il comandamento evangelico della povertà ha trovato svariate traduzioni nella prassi delle diverse tipologie della vita religiosa.

Ma sussistono alcuni punti di convergenza.

Il principale è il celibato per il regno "di Dio ( Mt 19,12; 1 Cor 7,7 e passim ) indispensabile nella vita religiosa, interpretato - accentuatamente oggi - come condizione di povertà in quanto presuppone un vuoto ricolmato prioritariamente da Dio e dalla sua "giustizia" ( giustificazione, salvezza ).

a. Austerità

Numerosi apophtegmafa ravvisano nell'austerità e nella disciplina comunitaria una forma di povertà.

Gesto necessario di ogni monaco e contrassegno di povertà è la rinuncia.

La giustificazione della radicalità della rinuncia quasi sempre è trovata in un certo pessimismo e nella valutazione negativa del ( v. ) mondo; tuttavia, al di sopra del relativismo di tali posizioni culturali restano invariate la spiegazione evangelica e le conseguenze della sequela Christi.

Giovanni Cassiano ( ca. 360-435 ) distingue tre tipi di rinuncia: disprezzare tutte le ricchezze e i beni del mondo; rinnegare il proprio passato, vizi e passioni dello spirito e della carne; ritrarre la mente dalle realtà presenti e visibili per desiderare solo quelle eterne.

b. Mendicità

La mendicità è una scelta caratteristica del movimento cosiddetto mendicante, ma non ignota nel monachesimo antico.

Un monaco di Scete esclamava: « Ti ringrazio. Signore, per avermi fatto degno di giungere a questo in tuo onore: di dover chiedere l'elemosina nella necessità ».

S. Francesco definisce la questua « mensa del Signore », alla quale tuttavia si deve ricorrere solo quando non fosse data la ricompensa al proprio lavoro ( Testamento ).

La questua assunse valore di povertà e di umiltà perché solo chi è povero deve essere aiutato, secondo l'invito di Gesù ( Mt 19,21 ); esprimeva fiducia nel Padre ( Mt 6,25-34 ) e nei fratelli, ricchi e poveri, perché veniva esercitata a tutte le porte mettendo a contatto con tutti il mendicante che si presentava a nome della fraternità.

c. Comunione dei beni

La forma di povertà che ha caratterizzato per una quindicina di secoli tutte le manifestazioni della vita religiosa è la comunione dei beni.

Come ricorda s. Agostino ( 354 - 430 ) nella sua regola, tale soluzione poggia sull'esperienza della chiesa di Gerusalemme ( At 4,32.35 ).

Questo segno di povertà monastica è un no alla proprietà privata e una via alla fraternità.

Tutte le regole concordano - pur nella diversità delle espressioni letterarie - su due capisaldi: abdicazione al possesso individuale, comunione dei beni.

Tale comunione non si limita ai beni di consumo, ma richiede una comunicazione esistenziale, il mettere insieme carismi personali, aspirazioni, affettività, ecc., cioè tutta la propria personalità.

d. Lavoro

Il monachesimo ha dato un'interpretazione spirituale all'operosità umana, e il lavoro diventa testimonianza di povertà.

Il lavoro manuale fu per molti secoli una delle attività predominanti nella vita religiosa.

Lavorare era una prassi generalizzata, una necessità comunitaria di sussistenza indipendente.

Esso era vissuto come testimonianza comunitaria, come segno di povertà, come occasione di realizzazione personale.

Il risvolto economico del lavoro non restava solo un'operazione mercantile, ma si elevava al livello religioso per il significato che più di qualche testo antico gli assegnava.

L'ordo monasterii ( IV/V sec. ) prescrive ai monaci incaricati della compra-vendita regole di giustizia sociale e oculatezza finanziaria, ma « come servi di Dio ».

Il lavoro nella vita religiosa ha allargato man mano gli spazi di espressione, comprendendo il servizio apostolico ( ministeri clericali, missione, predicazione, parrocchie, ecumenismo ), l'impegno culturale, l'azione sociale…

Oltre che segno di povertà, esso oggi tende a privilegiarsi come servizio nella costruzione del regno di Dio.

2. Le accentuazioni del Vat II

Il Vat II ha detto una parola di approvazione e di esortazione nei confronti della prassi di povertà vissuta dai religiosi.

Ribadito il significato della povertà come condivisione, della scelta operata da Cristo ( LG 42, LG 43, LG 46; PC 1, PC 13, PC 25 ), ad essa viene dedicato l'intero paragrafo 13 del decreto Perfectae caritatis.

Il Concilio riconosce nella povertà una scelta volontaria per concretizzare la ( v. ) sequela di Cristo.

In tale cornice essa prende una qualifica di segno molto apprezzato specialmente oggi: quindi, la povertà pare non costituisca un valore in sé, ma si pone principalmente come momento della sequela Christi.

Della povertà religiosa - una forma specifica della povertà evangelica - il testo dice poche cose:

necessità di praticare una povertà interna ed esterna e non solo come dipendenza dai superiori nell'uso dei beni;

condivisione della comune legge del lavoro;

invito ad una testimonianza comunitaria di povertà;

sostegno ai poveri e intercomunione dei beni;

riaffermazione del diritto degli istituti di possedere e ammonimento ad evitare ogni apparenza di lusso, di lucro eccessivo e di accumulazione dei beni;

qualche dettaglio giuridico.

Il Concilio si è limitato a qualche avvertimento, e neppure tanto radicale, affidando alla responsabilità e alla sensibilità di ogni gruppo la ricerca di concretizzazioni di quella povertà evangelica, che fu posta e vissuta da tutti i fondatori come scelta di solito molto radicale ed evidente.

Nel post-concilio le nuove costituzioni dei singoli gruppi religiosi si sono sforzate di puntualizzare i concetti e la prassi relativi alla povertà: è un filone inesauribile di testimonianze.

Tra i documenti magisteriali il più completo è l'esortazione di Paolo VI Evangelica testificatio ( 29 giugno 1971 ).

La vita religiosa è una testimonianza dell'amore di Dio, che si concretizza anche nella povertà assunta secondo l'esempio di Cristo.

È forte l'esortazione a badare al "grido dei poveri" che si leva dalla loro indigenza personale e dalla loro miseria collettiva: esso deve trovare un'eco in azioni di pace, di giustizia e di condivisione servizievole della loro situazione, nell'impegno di liberarli.

Il lavoro è riproposto come dovere di guadagnare la propria vita e di aiutare i poveri.

Il valore di testimonianza deriva alla povertà da una generosa risposta all'esigenza evangelica nella fedeltà totale alla propria vocazione e non soltanto da una preoccupazione di apparire poveri.

IV - Il magistero recente

Punto di riferimento per una valutazione secondo la cosiddetta dottrina sociale della chiesa è l'enciclica di Leone XIII Rerum novarum ( 15 maggio 1891 ).

In essa sono gettate le fondamenta per lo sviluppo della visione teologica anche delle situazioni di povertà e per iniziative in direzione promozionale e di liberazione.

I successori hanno proseguito su quella strada, riprendendone e sviluppandone le posizioni sociali, nel contesto delle mutate sensibilità e delle rinnovate modalità di lettura dell'evangelo, anche tramite documenti commemorativi: l'enciclica Quadragesima anno ( 15 maggio 1931 ) di Pio XI, il radiomessaggio nella pentecoste del 1941 di Pio XII, l'enciclica Mater et magistra ( 15 maggio 1961 ) di Giovanni XXIII e la lettera Octogesima adveniens ( 14 maggio 1971 ) di Paolo VI.

Il Vat II si colloca in simbiosi culturale con il magistero pontificio.

Tale evento ha superato i confini della chiesa cattolica, espandendone l'influenza e suscitando le reazioni a raggio mondiale.

L'ottica conciliare di analisi delle situazioni del povero e di valutazione della povertà è evangelica.

Termine di confronto è Cristo povero, al quale la chiesa è chiamata ad uniformarsi nell'umiltà e nell'abnegazione; Cristo povero si visibilizza nell'uomo povero ( LG 8 ).

Su questa corrente l'impegno ecclesiale si affianca all'impegno sociale.

L'interesse della chiesa verso il povero si traduce in predilezione ( PO 6 ), misericordia ( AA 8 ), rispetto ( GS 27 ), lotta per la liberazione dalla povertà umana in dimensione ecumenica ( UR 12 ).

La chiesa, diceva papa Giovanni, è « chiesa dei poveri » ( radiomessaggio 11-IX-1962: « la Chiesa di tutti, e particolarmente la chiesa dei poveri » ).

I poveri sono uniti a Cristo sofferente, da lui sono stati definiti « beati » ( LG 41 ), ad essi ha annunciato la buona notizia della salvezza ( LG 8; AG 3; PO 17 ).

La chiesa si propone di essere essa stessa povera, come Cristo ( LG 8; AG 5; AG 12 ).

Nella concretezza delle scelte « lo spirito di povertà e di amore, gloria e testimonianza della chiesa » ( GS 88 ), comporta un'azione efficace verso i poveri sia in autonomia, sia affiancando chi persegue il medesimo obiettivo promozionale; una denuncia del sottosviluppo e dell'egoistico benessere delle nazioni che si dicono cristiane; una rinuncia ai mezzi prestigiosi e potenti come supposto veicolo della salvezza; l'assunzione delle tristezze e angosce dei poveri ( GS 1 ).

Conseguenza individuale, ogni cristiano deve compenetrare la propria esistenza dello spirito evangelico delle beatitudini, soprattutto la beatitudine della povertà ( LG 41; GS 72).

Il suo rapporto con la creazione non può essere possessivo e di sfruttamento, ma deve diventare gioiosa comunione in povertà e libertà di spirito ( GS 37).

L'attenzione prioritaria verso i poveri appare in documenti successivi del magistero.

Nel sinodo dei vescovi del 1971, dedicato al tema della giustizia, i vescovi denunciano la crescita della massa dei poveri prodotta da calcolo politico o da negligenza, ed esprimono preoccupazione per l'impoverimento di una terra cinicamente sfruttata ed inquinata e per la degradazione della biosfera.

L'azione "atea" dell'uomo danneggia il progetto di Dio.

Dio, specialmente nella rivelazione biblica, si presenta come liberatore degli oppressi e difensore dei poveri.

Per neutralizzare l'effetto nocivo delle contraddizioni i vescovi propongono, tra l'altro, la promozione umana, la lotta per il diritto al progresso, la rimozione delle discriminazioni all'accesso dei beni, la partecipazione.

Il sinodo cerca una coerenza tra il suo messaggio e la testimonianza ecclesiale provocando un esame di coscienza: « Sia lecito chiedersi se i beni della chiesa siano sempre usati come patrimonio dei poveri, oppure al contrario in alcune regioni mediante l'accumulazione dei fondi, di edifici e di terre, la chiesa non appaia uno dei ricchi »; vescovi, presbiteri, religiosi e religiose, laici sono sollecitati ad interrogarsi se « l'appartenenza alla chiesa non introduce in un'isola ricca entro un contesto di povertà ».

Il sinodo successivo, celebrato nell'autunno del 1974, focalizza l'impegno di evangelizzazione che la chiesa ha ricevuto da Cristo.

Come comunità veramente povera, oltre che orante e fraterna, può agire con efficacia per procurare la piena liberazione degli uomini.

Dall'evangelo ricava ispirazioni e forza « per promuovere una generosa dedizione al servizio di tutti gli uomini e specialmente dei poveri, dei più deboli, degli oppressi… ».

Il medesimo tema ritorna ed è sviluppato nella esortazione di Paolo VI Evangelii nuntiandi ( 8 dicembre 1975 ).

In essa si ribadisce l'esemplarità di Cristo: egli evangelizza i piccoli e i poveri, i quali diventano suoi discepoli ( 12 ).

All'evangelizzazione non è estraneo l'annuncio della liberazione, il dovere di aiutarla a nascere, di testimoniare per essa, di operare perché sia totale ( 30 ).

Scegliendo negli orizzonti del magistero più vicino, occorre citare il documento dei vescovi italiani L'evangelizzazione del mondo contemporaneo ( 1974 ).

Interrogandosi su « chi deve essere evangelizzato », i vescovi rispondono, sulla scia ineludibile dell'evangelo: « i poveri ».

Poveri sono « coloro che non avendo beni terreni ed essendo privi o privati del potere su cui potersi appoggiare per farsi valere, pongono la loro fiducia e la loro speranza in Dio, attendendo da lui la propria salvezza ».

Nell'annuncio del messaggio evangelico la chiesa deve privilegiare i poveri, gli emarginati, gli oppressi.

Perciò, evangelizzazione diventa promozione umana.

V - Teologie contemporanee

Le elaborazioni teologiche più recenti tendono a leggere i fenomeni del cosmo, compresa la realtà-uomo, dal di dentro di essi, e sentono Dio impegnato al servizio dell'uomo.

L'uomo è il povero che ha bisogno di Dio; questo uomo sta al centro della storia, che è sempre storia della salvezza.

Dentro questo alveo - che si potrebbe appellare "teologia dell'uomo" - sono passate numerose correnti.

Tra i più emblematici appaiono due filoni, denominati "teologia della speranza" e "teologia della liberazione", i quali contengono qualche proposta avvincente intorno al tema del povero.

1. La "Teologia della speranza"

Questa visione teologica porta all'uomo contemporaneo l'arricchimento della speranza.

L'uomo non è descritto esplicitamente come un povero, ma la sua dimensione di povertà si desume analizzando l'esistenza effettiva della persona.

Infatti, pare che l'uomo odierno sia vuoto di speranza - specialmente di speranza escatologica - perché i suoi progetti sono definiti su parametri orizzontali e con scadenze prefissate, comprovati dalla logica e dalle certezze della scienza.

Egli tende a fermarsi ai risultati di tali progetti, affascinanti eppure insoddisfacenti.

Dietro sicurezze, capacità e successi, cioè dietro un certo tipo di ricchezza antropologica, si cela un vuoto che anche la "teologia della speranza" vorrebbe colmare, spingendo l'uomo ad entrare nell'orbita del Dio del cristianesimo.

Il Dio del cristianesimo si palesa nella rivelazione biblica.

Già il dato dell'auto-rivelazione di Dio significa l'intenzione di arricchire l'uomo povero nella conoscenza.

L'autorivelazione di Dio - che si situa nella storia, ma che non si esaurisce in essa - fa erompere una speranza.

La speranza non defrauda ma costituisce la felicità del presente: dichiara "beati" i poveri, si prende cura dei bisognosi perché vede per loro la parusia del regno di Dio.

Questa visione è il contenuto di una promessa: è il preannuncio di una realtà che si attende, di un Dio fedele, di una salvezza certa.

Il documento sulla giustizia nel mondo compilato nel sinodo episcopale del 1971 ha recepito il valore di simili prospettive, tracciando lo spazio nel quale la chiesa sviluppa la sua vocazione, « quella di essere presente nel cuore del mondo per predicare la "buona novella" ai poveri, la liberazione agli oppressi e la gioia agli afflitti ».

2. La "Teologia della liberazione"

La rivendicazione di una autonomia totale è un fenomeno oggi quasi generalizzato, ma impregnato di forti contraddizioni.

Esso appare come il tentativo dei poveri di riappropriarsi della libertà - o di frange di libertà perduta oppure compromessa - e di riguadagnare la propria identità.

La letteratura teologica cerca di interpretare questa tensione secondo categorie che mutua dalla bibbia e si sforza di immettervi ispirazioni desunte dal proprio convincimento che esiste un progetto di redenzione ideato da Dio.

Il piano sociale e politico dell'emancipazione è attraversato dall'idea di redenzione.

Speranza cristiana e liberazione dell'uomo confluiscono verso un obiettivo identico, o per lo meno analogo.

La "teologia della liberazione" da contributi stimolanti per la lettura dei fenomeni socio-politici nell'ottica di una spiritualità non disincarnata ne relegata nella metastoria; e offre incentivi dinamici per un'azione efficace.

Il sinodo episcopale del 1971 ha rammentato che l'evangelizzazione odierna richiede un impegno totale per la liberazione dell'uomo integrale a cominciare dal presente della storia.

Paolo VI ribadisce gli obiettivi degli sforzi e delle lotte per superare tutto ciò che condanna a restare ai margini della vita: carestie, malattie croniche, analfabetismo, pauperismo, ingiustizia nei rapporti internazionali e specialmente negli scambi commerciali, situazioni di neocolonialismo economico e culturale ( Evangelica testificatio 30 ).

Questo è il medesimo itinerario percorso dai teologi della liberazione.

La permanenza di condizioni che perpetuano la presenza di popoli e di masse di poveri è la traduzione attualizzata del peccato originale, è il peccato sociale che sfigura l'umanità.

Ma anche per essi c'è redenzione secondo l'evangelo se si lasciano sprigionare le sue forze soteriologiche, quali il comandamento dell'amore, l'impegno per la giustizia, lo stile del servizio reciproco.

Operare a livello politico, sociale, economico, ecc. con i presupposti della evangelizzazione è operare al livello della spiritualità.

La liberazione si rivolge ai poveri.

Essi sono proclamati "beati" non perché stanno nell'indigenza o perché sono oppressi, ne soltanto perché confidano in Dio e attendono da lui la liberazione, ma soprattutto perché Cristo attualizza la giustizia salvifica di Dio: la speranza dei poveri è la persona di Gesù prima ancora che un annuncio.

La liberazione avviene in profondità, nell'interiorità, dove immette una carica di tale dinamismo da annullare dal di dentro le conseguenze di situazioni esteriori opprimenti.

Tuttavia, le realtà individuale e sociale sono ancora, sovente, pietrificate e riescono a neutralizzare la forza della salvezza e ad impedire il sopravvenire dell'unica signoria, quella di Cristo.

La "pastorale liberatrice" e la "spiritualità della liberazione" sono azioni che si sviluppano per impulso dello Spirito santo e si imperniano nella "conversione all'oppresso" nel nome di Cristo, fino all'impegno qualificato dalla solidarietà con il povero perché egli in tutti gli ambiti ( sociale, ecclesiastico, politico, economico, psicologico, sanitario, spirituale… ) sia sottratto alla sua condizione
di inferiorità e liberato integralmente.

È un'azione a contenuto pasquale.

VI - Conclusione: in favore del povero

Le pagine precedenti costituiscono un tentativo di raccogliere nella sequenza dei secoli di cristianesimo qualche traccia di ammaestramenti e di prassi per definire il povero tramite le categorie della spiritualità.

I filoni descritti e analizzati non esauriscono l'ampiezza delle ispirazioni e dei luoghi della spiritualità cristiana attenta al povero; e questa, a sua volta, non esaurisce le concezioni della spiritualità universale intorno al povero.

Si tratta di una proposta di sintesi ricavata da alcune ispirazioni e realizzazioni che hanno animato la storia, molte delle quali vivificano il tempo presente.

Le urgenze dell'oggi tallonano, ciascuno; e allora si chiede se torna utile lo sguardo retrospettivo.

Il dinamismo vitale della spiritualità garantisce dalle tentazioni di sostare in rimpianti e nostalgie per le testimonianze del povero nel passato, o di affannarsi in ambigue denunce delle prevaricazioni indubbie dei predecessori.

Il tempo precedente, nell'ottica della fede, è comunque una ispirazione.

Ma il cammino dell'esistenza totale procede dall'oggi verso il futuro.

La speranza insegue il progetto d'una terra abitata dai poveri dell'evangelo, liberi da ogni limite di povertà: sono "beati", infatti, i poveri, non la povertà ( Mt 5,3; Lc 6,20 ).

La presenza ininterrotta di coloro che per varie ragioni si definiscono poveri interpella ciascuno con una domanda cruciale: chi è il povero?

La spiritualità offre una risposta cercata non nel confronto con la quantità dell'avere, perché ognuno registra vuoti di possesso; ma nella valutazione della qualità dell'essere.

Di ogni uomo si può dire: è povero; io che scrivo e tu che leggi, i nostri fratelli e sorelle, coloro che ammiriamo o che compassioniamo… tutti viviamo momenti da povero, in una povertà che alle volte è dono di Dio e alle volte è incidente.

È un assioma che il realismo dell'umiltà costringe ad accettare.

Le interpretazioni e le proposte della spiritualità - nel passato e nel presente - soccorrono questo "uomo povero", ma forse non ogni povero ne intende il linguaggio e le finalità.

Spiritualità significa dialogo tra lo Spirito santo e lo spirito dell'uomo; spiritualità è l'azione concreta dello Spirito.

Perciò si colloca negli orizzonti della fede.

La metodologia della spiritualità ha propri confini, non pretende di dire tutto sul povero e al povero.

Non si può esigere dalla spiritualità soluzioni per ogni problema, bensì idee per rinnovare dall'interno concezioni e rapporti e soprattutto lo spirito medesimo dell'uomo.

Non si può strumentalizzarla per infondere al povero qualche tipo di rassegnazione, e nemmeno forzarla per lanciare i poveri in avventure di violenza, di ingiustizia, di disperazione.

La spiritualità parla al povero e del povero con realismo dinamico in verticale.

Essa non isola il povero dalla globalità dell'evangelo; lo situa nella coralità delle beatitudini perché è uomo completo, è discepolo realizzato non il portatore di una sola o di qualche beatitudine, ma colui che le ha assimilate tutte, o che si sforza di assimilarle tutte.

La spiritualità prospetta al povero l'obiettivo della libertà.

« La vera povertà è una delle vie dell'orazione e del silenzio interiore, poiché ha per fondamento la spogliazione e la libertà dell'anima rispetto ad ogni creatura », scrive R. Voillaume ( Come loro, 281 ).

L'esito è duplice: libertà da e libertà per.

Sul filo di questa puntualizzazione si può schematizzare una riflessione conclusiva vedendo il povero in uno stato negativo ( povertà come negazione; libertà da ) e poi come portatore di valori ( povertà come valore; libertà per ).

1. La negazione

La povertà come assenza e come penuria è visibile ovunque; ad essa nessuno sfugge, almeno per qualche episodio della sua esistenza.

La terra è povera.

Sfruttata dalle prevaricazioni dell'uomo, essa decade e immiserisce.

Chi presta attenzione agli indizi e alle informazioni è preoccupato come davanti ad un pericolo incombente di morte.

Questa degradazione colpevole coinvolge nell'inquinamento l'uomo medesimo e le altre forme viventi.

La terra povera è un simbolo: poveri sono gli sfruttati, le vittime degli egoismi, gli esclusi dal rispetto; poveri perché vuoti di umanità sono gli sfruttatori e gli egoisti.

Questa è una povertà da eliminare in obbedienza al comandamento biblico di rispettare l'armonia tra l'uomo e la terra ( Gen 1,28; Sap 9,2; Sap 10,2 ).

La spiritualità impegna a lavorare per il ripristino dell'equilibrio ecologico [ v. Ecologia ].

I popoli sono poveri.

La geografia mondiale evidenzia una demarcazione tra popoli ricchi e poveri; quasi tutti i popoli ricchi vantano una tradizione culturale e religiosa imbevuta di cristianesimo.

Questa ricchezza non è completamente sana, se non altro perché non viene condivisa e non diventa efficace strumento di liberazione e di fratellanza.

La presenza di popoli interi come poveri in epoca di evidenti possibilità di progresso denuncia l'esistenza di un piano discriminatorio o comunque di responsabili omissioni.

Sottosviluppo, indigenza, fame, incultura, sudditanze…, cioè le condizioni che rendono poveri i popoli non è lecito che coincidano con una etnia o che coesistano in una precisa topografia: è una povertà da eliminare.

L'evangelizzazione dice loro "beati", ma non per quella povertà, bensì perché hanno il diritto di liberarsene, di saziarsi, di essere felici ( Lc 6,20-21 ).

Ma anche i popoli ritenuti ricchi sono malati di tanta povertà: insoddisfazioni, paure, schiavitù, le nemesi del benessere che inquinano i risultati validi del progresso.

L'individuo è povero.

Carenze, solitudini, incompletezze e irrealizzazioni, scontento per i risultati dei propri desideri e progetti sono una realtà che ogni persona variamente sperimenta, aggiunta alla povertà che colpisce il popolo o il gruppo al quale ciascuno appartiene.

L'uomo soprattutto è il grande povero perché limitato a confronto dei suoi grandi aneliti connaturali.

Questo è il "peccato" al quale Dio propone una redenzione individuale ( però non isolata ).

L'uomo si salva se prende coscienza di tale povertà, se percorre fino in fondo il cammino della conversione, cioè dell'autocritica e del distacco verso il ritorno alla verità di Dio e di sé.

Questo tipo di povertà è negazione d'una identità ontologica in evoluzione, è carenza di umanità; povero in questa condizione è l'essere lontano dal progetto di Dio.

Si tratta di una povertà sempre colpevole, conseguenza d'un peccato proprio o altrui.

La liberazione può avvenire agendo su questa causa: Dio vi ha agito col disegno della redenzione; ma attende che anche l'uomo lo accolga integralmente, che non abbia vergogna della sua nudità, cioè della sua insufficienza e del bisogno quotidiano che proprio Dio venga a dargli salvezza.

2. Il valore

La fiducia nel Dio fedele e la fede nella risurrezione di Cristo che prova la potenza di Dio e capovolge i canoni mondani di valutazione, sono i capisaldi sui quali si rende possibile la comprensione delle beatitudini evangeliche, prima tra le quali quella per i poveri.

Ancorata alla logica di Dio, la povertà diventa un valore; liberato dalla povertà come negazione, il povero diventa testimone della validità e delle capacità trasformatrici dell'evangelo, della potenza di Dio e delle possibilità obbedienziali dell'uomo.

In questa angolazione la povertà diviene un sì, il povero si definisce mediante il verbo essere perché egli è in positivo.

Povero è chi attende.

L'attesa di Dio che ricolma qualifica il povero.

Egli riconosce i doni ricevuti, verifica in umiltà e verità la propria situazione di incompletezza ma anche le grandi cose che Dio opera in lui.

Attesa è dinamismo, convinzione di non aver raggiunto la propria pienezza e gli obiettivi fondamentali dell'esistenza, e da questo scaturisce l'impegno di proseguire un cammino, come un « nomade di Dio ».

Il mendicante è immagine eloquente: il signore al quale si tende la mano è Dio, ed egli in cambio dei suoi doni non reclama umilianti sudditanze, offre invece la comunione con sé.

Attendere Dio significa arricchire in umanità.

Povero è chi accetta.

L'attesa di Dio si completa con l'accettazione di lui.

Ma povero è anche chi accetta se stesso, profondamente.

Accettare i propri limiti e il proprio peccato costituisce una confessione di disponibilità alla liberazione.

Parimenti, il povero accetta e accoglie gli altri così come essi sono, non come egli li vorrebbe.

Segno di tale accoglienza sono la gratitudine, la comunione dei beni, la solidarietà perseverante…

Questa dimensione di povertà accogliente diventa donazione: quanto il povero riceve passa attraverso le sue mani, che sono « non mani aperte per avere ma congiunte per donare ».

Infatti, i poveri autentici si distinguono nella generosità.

Povero è chi prega.

La preghiera è manifestazione del bisogno di Dio sentito dall'uomo che si percepisce povero; essa è un desiderio proprio di Dio che suggerisce all'uomo forme e parole perché sia capace di sostenere il dialogo con lui.

La preghiera realizza l'incontro tra la ricchezza di Dio e la povertà della creatura umana.

Il povero che prega è l'umile mendicante di misericordia presso « l'unico benefattore degli spiriti », al quale presenta la lode della sua fede, l'intercessione della sua speranza, il ringraziamento della sua carità.

Il rinnovamento liturgico post-conciliare costituisce una riuscita occasione di arricchimento.

L'attuale struttura della celebrazione dei sacramenti - mediazione di salvezza, conferimento di un dono - evidenzia l'abbondanza che ogni rito contiene: dimensione comunitaria, catechesi come occasione promozionale, dovizia della parola di Dio contenuta nella voluminosa antologia dei brani biblici, copiosità di intercessioni, invocazioni, benedizioni.

La liturgia delle ore è soprattutto cantico di lode che scaturisce dalla gioia del povero, come lo stupore di chi scopre di aver ottenuto dei doni, individuati da molti inni e salmi nella creazione, nella salvezza, nella parola di Dio.

Nella orazione segreta e nella contemplazione - particolarmente nella lectio divina - l'orante instaura
un dialogo essenziale con Dio principiando dal realismo individuale, che è il bisogno di salvezza, cioè il desiderio di uscire dalla propria povertà per partecipare alla inesauribile ricchezza del Signore.

In questo modo di essere povero sta la "virtù" della povertà.

Virtù non è "abitudine", ma scelta cosciente e incessantemente rinnovata; virtù di povertà è sforzo di libertà per "essere di più".

Perciò, la povertà non è facile, è dura sia come dono di Dio sia come sposalizio con essa, non si acquisisce una volta per sempre; ma è possibile e ne da certezza l'evangelo.

Ma questa povertà come valore non è ancora una realtà completa e definitiva, resta una speranza, nella quale il povero nello Spirito continua tenacemente a credere e che operosamente continua ad amare.

Infatti, egli è il protagonista umano della povertà non mortificato nella personalità ne costretto ad abdicare ai valori.

Il povero dell'evangelo diventa progressivamente ricco nello Spirito santo.

Il momento di massima povertà è la morte, che Cristo ha riscattato e mutato in sacramento pasquale, cioè in passaggio alla risurrezione della vita definitiva con Dio.

  Austerità
  Consigli
  Elemosina
  Istituti S.
… e Gesù Consigli I,2
  Gesù I
  Povero I,2
  Povero IV
Dio nel … Orizzontalismo V,3
… e Maria Maria II
  Povero I,2
Nell'eucaristia Eucaristia II,2
Nella vita ecclesiale Chiesa II
Nell'apostolato e nel martirio Amicizia VIII
  Martire I
Nei religiosi Povero III
Nel prete Ministero IV
Nell'orante Povero VI
  Preghiera IV
  Religiosità II,4
… e comunione di beni Consigli I,5
  Povero III,1
… in servizio dei bisognosi Diacono IV
Nell'esperienza familiare Famiglia IV,3
Nei giovani Giovani I,4
Simbolo del deserto Deserto II,4
  Deserto II,4
… e tempo libero Tempo II
Ateo Ateo IV
Nel mondo greco-romano Carità II,2
… e umiltà Umiltà II

S. G. B. de La Salle

San Nicola, vescovo di Mira MF 80,3
Festa del Santo Natale MF 86,2
Adorazione dei Re MF 96,3
Sant'Antonio abate MF 97,1-2
Conversione di san Paolo MF 99,2
San Francesco di Sales MF 101,3
San Francesco da Paola MF 113,1-3
Sant'Atanasio MF 120,3
Santa Margherita regina di Scozia MF 133,3
San Paolino vescovo di Nola MF 137,2-3
San Bonaventura MF 142,1
Sant'Alessio MF 143,2-3
San Domenico MF 150,1
San Gaetano MF 153,3
San Lorenzo MF 154,1
San Cassiano vescovo e martire MF 155,3
San Luigi re di Francia MF 160,1
San Cipriano MF 166,1-2
San Francesco di Assisi MF 173,1-2
San Bruno MF 174,1
San Francesco Borgia MF 176,2
San Carlo Borromeo MF 187,1
San Martino di Tours MF 189,1
Santa Elisabetta MF 190,2-3
Santa Caterina di Alessandria MF 192,2
Cosa dovete fare per rendere il vostro ministero utile alla Chiesa MR 200,1
Zelo che un Fratello delle Scuole Cristiane deve manifestare nell'esercizio del suo ministero MR 202,2
Cose riguardanti l'impiego, su cui dovrà rendere conto un Fratello delle Scuole Cristiane MR 206,1
Ricompensa che, sin da questa vita, deve aspettarsi chi si è dedicato all'istruzione dei ragazzi e ha compiuto bene questo dovere MR 207,3